sabato 9 gennaio 2016


      

 


Faustino e la spina














Era quasi l’ora del tramonto.
Il cielo era stato sereno per quasi tutto il giorno, ma adesso nuvole enormi stavano ammassandosi a oriente, spinte da un forte scirocco umido e carico di sabbia del deserto.
Si avvicinava un forte temporale.
La città si preparava alla sera ed alle ore della notte.
Sembrava una giornata ordinaria, d’una primavera tiepida e piena di rondini.
La gente si era riversata nelle strade, prima, ma adesso tornava alle attività consuete.
Succedeva così quando c’era una esecuzione sulla collina.
§§
§
Un gruppo di persone, una donna giovane e qualche altro parente, forse,  guardavano in su intorno al condannato.
Gemeva e aveva sete.
Era legato e inchiodato a due pali di legno.
Ad un tratto alzò la testa.
In quel dolore grande, in quel bruciore che contrassegna le ore dopo un grande disinganno, in quel fastidio fisico per le frustate e l’umiliazione, una cosa più d’ogni altra lo torturava.
§§
§
Sulla fronte, che tante volte la mamma gli aveva accarezzato e che lui stesso aveva asciugato dal sudore, d’estate, sentiva qualcosa che più d’ogni altra lo pungeva.
Una corona di spine gli circondava i capelli lunghi e castani, ramati.
Una spina gli trafiggeva la fronte, accanto alla tempia destra.
E aveva sete.
§§
§
Tanta sete, e chissà perché.
A volte si ha sete e fame solo perché si aspetta che qualcuno venga a darci qualcosa.
A parlarci.
Chinò il capo.
Aspettava una fine che aveva previsto.
Il suo lavoro stava per culminare.
§
Quando, mentre guardava in basso i soldati giocare a dadi e qualcun altro disperarsi per lui, vide con la parte superiore dell’occhio qualcosa muoversi sopra la fronte.
Un passero si era fermato leggerissimo sopra la corona di spine.
Sorrise, il dannato.
§
Ad un tratto il volatile afferrò con il becco la spina che tormentava più d’ogni altra cosa il giovane legato alla croce e cominciò a tirare, finché il legno si staccò dalla pelle ed una goccia di sangue gli colorò il petto…
“Faustino … ti chiami Faustino …”
“Si…”
cinguettò il passerotto …
“Da oggi sarai un pettirosso, in ricordo di me…”
§
“Si… ma ci rivedremo …”
“Certo … tu potrai vedermi sempre, Fausto …”
§§
§
In quel momento il giovane non si sentì più abbandonato da nessuno e si riconciliò con il Padre.
Gridò.
Scoppiò un tuono, preceduto da un bagliore e la donna sotto la croce gridò il suo nome …

Gennaro di Jacovo


La stanza di Romeo



E altri racconti …


Nel giardino di Tito Lucrezio Caro

Argos & Ruphus

Editori
Ubicumque ero tecum
Alpha
“Vola, Romeo…!”
Lo aveva visto nella sua stanza appollaiato sopra gli sci.
I Rossignol.
Era rimasto lì un paio di giorni, dopo essere uscito dalla gabbietta celeste.
Qui era stato ospitato dalla sera del 25 di febbraio, domenica.
Erano usciti per una breve passeggiata in centro, quella sera.
Arrivati all’ingresso del garage del grande palazzone nuovo, prima del bar, avevano notato un piccione giovane fermo all’interno del vano.
Era l’imbrunire ed era strano questo fatto.
Che fare?
Gennaro si avvicinò, ma il volatile scese la rampa.
Era difficile prenderlo.
Aveva paura di fargli male.
Infine lo circondò con le mani,
Un’ala era ferita.
Sanguinava.
“Anna, dobbiamo portarlo a casa…”
“Certo…”
Velocemente tornarono verso la loro abitazione.
Entrarono in giardino.
Il piccione fu sistemato in una gabbietta piccola, così da favorire, con l’immobilità, la guarigione dell’ala.
§§§
§
Gennaro sistemò dei cereali destinati a Xanta, la colomba di casa, ed una vaschetta d’acqua negli appositi contenitori della gabbia.
§
La casa di Romeo era pronta.
Il colombo se ne stava buono.
Sembrava che la ferita fosse dovuta ad un colpo ricevuto, forse anche ad un colpo di arma ad aria compressa.
Le penne erano perforate e c’era una emorragia in atto che macchiava la regolare copertura grigio nera all’altezza della delicata giuntura alare.
Avrebbe bevuto e mangiato?
Sarebbe stato in grado di volare dopo i giorni necessari alla guarigione?
§§
§
Il piccione tubava, fermo, come se capisse la delicatezza della situazione.
Chiuso nella stanza, nel suo giardino, Romeo affrontò la sua prima notte.
La mattina successiva era tranquillo.
La ferita non sanguinava.
La sera precedente Gennaro l’aveva disinfettata spruzzando un liquido adatto sulla ferita e provocando l’irritazione del piccione.
L’operazione, semplice ed efficace.
Era stata evidentemente opportuna ed utile.
§§§
§

Faustino e la spina




Era quasi l’ora del tramonto.


Il cielo era stato sereno per quasi tutto il giorno, ma adesso nuvole enormi stavano ammassandosi a oriente, spinte da un forte scirocco umido e carico di sabbia del deserto.


Si preparava un forte temporale.


La città si preparava alla sera ed alle ore della notte.


Sembrava una giornata ordinaria, d’una primavera tiepida e piena di rondini.


La gente si era riversata nelle strade, prima, ma adesso tornava alle attività consuete.


Succedeva così quando c’era una esecuzione sulla collina.



§§


§



Un gruppo di persone, una donna giovane e qualche altro parente, forse, guardavano in su intorno al condannato.


Gemeva e aveva sete.


Era legato e inchiodato a due pali di legno.


Ad un tratto alzò la testa.



In quel dolore grande, in quel bruciore che contrassegna le ore dopo un grande disinganno, in quel fastidio fisico per le frustate e l’umiliazione, una cosa più d’ogni altra lo torturava.



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§


Sulla fronte, che tante volte la mamma gli aveva accarezzato e che lui stesso aveva asciugato dal sudore, d’estate, sentiva qualcosa che più d’ogni altra lo pungeva.


Una corona di spine gli circondava i capelli lunghi e castani, ramati.


Una spina gli trafiggeva la fronte, accanto alla tempia destra.




E aveva sete.



§§


§




Tanta sete, e chissà perché.


A volte si ha sete e fame solo perché si aspetta che qualcuno venga a darci qualcosa.


A parlarci.


Chinò il capo.


Aspettava una fine che aveva previsto.


Il suo lavoro stava per culminare.


§


Quando, mentre guardava in basso i soldati giocare a dadi e qualcun altro disperarsi per lui, vide con la parte superiore dell’occhio qualcosa muoversi sopra la fronte.


Un passero si era fermato leggerissimo sopra la corona di spine.


Sorrise, il dannato.


§


Ad un tratto il volatile afferrò con il becco la spina che tormentava più d’ogni altra cosa il giovane legato alla croce e cominciò a tirare, finché il legno si staccò dalla pelle ed una goccia di sangue gli colorò il petto…



“Faustino … ti chiami Faustino …”


“Si…”

cinguettò il passerotto …


“Da oggi sarai un pettirosso, in ricordo di me…”



§


“Si… ma ci rivedremo …”


“Certo … tu potrai vedermi sempre, Fausto …”


§§


§


In quel momento il giovane non si sentì più abbandonato da nessuno e si riconciliò con il Padre.


Gridò.


Scoppiò un tuono, preceduto da un bagliore e la donna sotto la croce gridò il suo nome …
§§
§
Poi si sentì il frullare delle ali del pettirosso che accompagnava il giovane nel Suo Regno.
§
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                 altri racconti …

       §



 

1.   gàmma    ……………………..…  Sedici

2.   dèlta    …………………………..  Il fratello

3.         èpsilon    ……………………….    Libri
4.         zèta    …………………………..    Alberi e libri
5.      èta    ……………………………    La bandiera


6.     theta ………. La mamma dei piccioni
7.      Iòta ……….  Il cancello
8.      kappa ……..  La formica  
9.      làmbda ……  Il corridoio dei segreti  
10.    mì …………  L’assemblea 
11.    nì ………….  Il vocabolario  
12.    ksì …….….   Il computer  
13.    òmikron ….   La gabbia dei gatti  
14.    pì ………...    Il Tavolo vale                
15.    rò …………   Il miglio perde  
16.    sìgma …….    La fondazione   
17.    tàu ………..    La Legione   
18.    ypsilon …...    Il piedicomio   
19.    phì ………..    Lazzaro    §
20.    khì ………..    La ciclabile    §
21.    psì ………..    Il volontario    §
22.    omèga …….   Gli Utenti    §


                

                 §§§

                 §


§§§


§

gàmma

§


Sedici



La sveglia suonò come al solito alle sei e mezzo.


Si alzò di scatto distendendosi a cuneo e inarcando la schiena.


Poi la abbassò roteando le gambe a bicicletta.


Un poco di movimento avrebbe svegliato i muscoli forti e scattanti, per adesso ancora abbacchiati.


Si infilò poi i pantaloni, dopo dieci minuti, e si rinfrescò.


Si vestì come al solito.


Jeans e felpa.


Scese.


Sua madre era sveglia ed aveva preparato la colazione.


Latte e caffè:


Croissons alla mela.


«  Mamma ... oggi resto con gli amici ... stasera abbiamo la cena dei cento giorni …”


“Allora torni tardi, Franco …”


“Si … ma non ti preoccupare … domani sarò in forma come al solito …”


§


“Non stancarti troppo … ormai la scuola è quasi finita.


Dopo gli esami, a Luglio, voglio comprare un forno a microonde nuovo, per le tue colazioni del mattino …”


§


“Ora vado … saluta pà … ciao …”


§


Franco salutò, baciò la mamma abbassandosi.

Era assai alto.

Uscì di casa.

Una giornata fresca ma piena di un sole frizzante e mattutino, lucente.


Si vedeva l’arco della costa verso Talamone ed il castello di pietra dorata.


Fra poco sarebbero arrivate le rondini …


§§§


Corse alla macchina e partì.


In breve fu in città.


Parcheggiò proprio accanto al grosso fabbricato della scuola.


Sul muretto di fronte le tortore stavano ancora mangiando i biscotti che il professore della biblioteca metteva per loro.


Volavano aggraziate, timide e schive.


Una tortorella fece cadere un frammento di craker vicino alla macchina appena parcheggiata.


§


Franco lo raccolse e lo gettò al volatile, che lo afferrò col becco e volò via, dopo essersi girato verso il giovane, quasi a ringraziare.


§


La mattinata trascorse lenta.


Ma giunse l’ora dell’uscita.


Fu invitato a pranzo da una compagna di classe.


Martina era una ragazza sportiva.


Era anche brava, studiosa.

Le piacevano le lingue, i viaggi.


Giocava a pallavolo, era una campionessa.


Il pomeriggio trascorse fra ricerche da svolgere, compiti e visite ad altri compagni di scuola.


La sera giunse con una gran voglia di vedersi tutti insieme per la cena di fine anno.


Al ristorante c’erano tutti.

C’era anche l’insegnante, con la collega.


I ricordi di cinque anni sarebbero stati tutti rivisti come vecchi, cari film.


§


“Andiamo … su … è tardi …”

Partirono verso il posto convenuto.


“Ma siamo quasi a secco … devo fare benzina …”

   

 §


Si diresse verso il grande distributore automatico all’ingresso della città.


Scese dall’auto e preparò venti euro.


Ma un leggero movimento brusco fece cadere la banconota che una tortorelle afferrò e portò via.


La fece cadere in un fosso, nell’acqua.


§


Per un caso assai strano nessuno passò, e Franco restò a lungo senza poter avvertire gli amici, senza benzina e senza il cellulare.


Dovette dormire nell’auto, e la mattina dopo, con la luce, recuperò il ventone e mise un po’ di carburante.


§


Mancavano novantanove giorni alla fine dell’anno scolastico e per colpa d’una tortorelle aveva perso la cena più importante della sua vita scolastica.

§§§


§


Libri


Erano disposti intorno a lui, in grigi scaffali di metallo, con il cartellino della collocazione bene in vista sul dorso.


Silenziosi, cheti, educati.

Stavano sempre fermi, finché qualcuno non li avesse presi ed estratti dalla loro naturale collocazione.


Naturale dopo che gli era stata convenzionalmente imposta.


In realtà la loro collocazione davvero ma prorpio davvero naturalmente accettabile era sopra il tavolo o il comodino o un altro mobile qualunque d’una casa.


Ma loro, in casa non li avevano voluti.


Chi nuovo appena sfornato, chi cacciato erano tutti finiti lì.


Schedati e collocati, catalogati.


Ed ora se ne stavano muti, buoni, e aspettavano, senza dirlo, che qualcuno li prendesse, chiedesse di loro, li sfogliasse, li leggesse o semplicemente li portasse un po’ in giro, nello zaino colorato dei ragazzi o in una borsa di donna, fra lo specchietto e le chiavi di casa, o in quella seriosa e zeppa di carte da uomo.


§§§


Andare a casa.


Per la prima volta.


O ritornarci e vedere se qualcosa fosse cambiato.

Le care cose sopra i mobili, la disposizione degli scaffali, i computer, i gatti e il cane.


Ma il più delle volte nessuno li prendeva.


§


C’era un tizio, con loro.

Era il loro educatore personale, e lo chiamavano Amico.


Li prendeva, a volte, e sembrava loro, questo gesto, un gesto fraterno, un atto delicato di amicizia.


Li leggeva, anche.


E questo faceva loro un effetto assai speciale.


Pareva che qualcuno, probabilmente la persona che lo aveva immaginato o scritto o fatto scrivere, parlasse dentro il messaggio con parole mute, senza suono ma comprensibili, e che queste fossero ascoltate, sentite, quasi, mentre erano lette per il tramite della carta e dell’inchiostro.


§


Era sentirsi realizzati, quel gesto di comunicazione.


Ma anche nell’attesa che avvenisse questo, si compiva la gioia, forse in modo meno visibile, ma comunque pieno di una particolare intensità


§


Sedeva al centro della stanza, verso gli scaffali della narrativa, l’Amico.

Scriveva, in genere, o sistemava libri e carte.


Riviste, quotidiani, numeri delle Gazzette contenenti le Leggi della Repubblica.


§§§


La stanza era in penombra.


Le finestre non offrivano nessuna particolare veduta.

Il muro grigio degli uffici era posto proprio di fronte, come una promessa di tedio.


Si vedevano dalle finestre prospicienti camminare i funzionari con un foglio in mano, da soli o a coppia, i docenti, a volte i dirigenti, sempre intenti a spiegare o chiarire qualcosa.


Si vedevano alunni in cerca di giustificazioni o desiderosi di essere ammessi dopo un ritardo, d’essere autorizzati ad uscire in anticipo.


L’Amico ormai era diventato come un vecchio falegname che, partito alla ricerca del figlio, testone di legno, fosse stato ingoiato da un pesce enorme, e dentro la pancia di questo avesse trovato il necessario per far luce, per scrivere, per sopravvivere.


Nella pancia d’un “mostro” provvidenziale aveva trovato quel che la vita non gli aveva mai offerto.


§


Non che la situazione fosse delle migliori.

Ma bisognava pur vivere.

§§§


La rassegnazione e l’accettazione rendono buono tutto e l’appetito, si sa, è il miglior condimento.


Proprio mentre stava scrivendo al computer, l’Amico avvertì con la parte superiore dell’occhio un movimento, alzò la testa e vide un uccellino.


Chissà da quanto tempo era rimasto chiuso nella grande stanza piena di libri.


Si alzò a andò alla finestra.


Era un pettirosso.


Il vetro gli impediva di uscire.


§


L’Amico dei Libri allora fece una cosa che pensava succedesse solo nelle fiabe.


Mise le mani, aperte, a gabbietta, come fossero due alberelli che si chiudessero, e, senza danneggiare la mirabile creatura, portò il pettirosso verso il cielo aperto, oltre la  finestra, che nel frattempo aveva aperto.



§§§



Il pettirosso bibliotecario volò in alto, elegante e soffice, un po’ insonnolito.



Si sa che la lettura, spesso, concilia il sonno e che il sonno porta consiglio.



§


§§§


§§§



§

èpsilon

§



Il fratello


Non lo avrebbe mai immaginato e poi, ormai si era abituato a quella vita solitaria, di re della casa.


Un re amico di tutti.

Allegro, educato, ma anche irruente, a volte, allegro.

Passava le giornate come se fosse sempre festa.

Festa grande.

Ma senza stravizi, senza eccessi.


Era amico di tutti e tutti gli erano amici.

Erano tutti invitati alla sua festa.


Ogni giorno.


§§§


Un pomeriggio tornava dai giochi.

Era settembre, quasi l’ora del tramonto, ma c’era ancora luce e ce ne sarebbe stata per un paio d’ore ancora.


Giunse a casa.


Gli dissero che era arrivata da poco.


La sorellina.


In breve alle escursioni ed alle scorribande con gli amici sostituì le lunghe ore passate accanto alla culla di legno.

Nella cucina si svolgeva gran parte dell’attività domestica.


§

C’era il grande camino e due finestre alte, una stufa, le fornacelle dove si cucinava prima accendendo il fuoco, poi con il gas.


Qui si studiava anche, d’inverno, col grande fuoco d r’ cppon dlla cmmnera, c r kttur k valliva e l cepp k schjppttavn…


§§§

§

I gatti sonnecchiavano e ronfavano.

A poco a poco il piccolo re divenne un re di casa, non uscì quasi più.


Girava per la casa, spesso, quando la sorellina dormiva, ritrovando tutti gli oggetti dei parenti partiti.

Conosceva ogni cosa.

I vestiti, gli attrezzi sportivi, la forgia per fondere i metalli, le vecchie cose abbandonate e care della famiglia.

§

La casa divenne una specie di museo vivente, una biblioteca in attesa che qualcuno ritornasse a visitarla, a farla rivivere.


§§§


La sorellina cresceva, e lui ormai era stato sistemato in collegio.

Aveva vinto una borsa di studio.


§


Questo fatto aveva dato una impronta decisamente diversa alla sua vita.

Ormai si era deciso a vivere come in una dimensione virtuale e virtuosa.

Un giorno sarebbe tornato ad essere il re delle morge e delle tane, della Rocca e della Coperchiata, d r’Vallon d Castllucc, il giovane “figl d r’ Scrtarj”.

Con la sua bicicletta avrebbe ancora percorso e solcato le strade del suo paese.

§§

Ma quel giorno non sarebbe tornato, perché la sua famiglia si trasferì in Toscana, quando lui aveva diciotto anni.

Cercò sull’atlante il nome del nuovo paese.

Quei posti gli parevano arcani.

Bellissimi.


Ma non dimenticò mai il suo Paese, la Grande Casa e i gatti.

Il fiume e i boschi.


§


Nel nuovo paese non c’era la sua migliore Amica: la Neve.

C’era il mare, le barche e le navi.

Il tempo passò e i due fratelli restarono con la mamma.

Poi la sorella si iscrisse all’Università, a Siena.

Così lui si accorse che erano sparite tutte quelle cose che avevano determinato e forzato le sue scelte, condizionato la sua vita, indirizzandola imprevedibilmente, ed era rimasto solo lui.


§


Forse che tutto si era svolto come in una dimensione immaginaria, astratta e virtuale?

Era davvero esistito un paese sulle rocce con un piccolo  fiume ed una famiglia così piena di fascino da fargli dimenticare tutto il mondo?


§


L’avrebbe cercata per sempre, ancora, eiV aiwna ...


§§§


§

§§§

zèta

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alberi e libri


Soffiava un vento fresco e la valle dorata era tutta mossa come un grande mare di erba e rami.


Ramon oscillava con il suo fusto alto e possente.


Era un forte ontano, nel Cànada lontano, e su di lui si posavano i pettirossi, le gazze, le aquile dalla testa bianca.


Sotto di lui passavano castori sempre attenti a qualche lavoro di consolidamento idraulico e lontre, sulla sua corteccia si grattavano i grandi, maestosi gritzly.


Un lago azzurro in fondo alla valle ospitava salmoni e lucci, accoglieva lontre e castori solerti.


Una calma silenziosa avvolgeva la valle verde e popolosa.


§


Un giorno Ramòn sentì qualcosa di strano.

Un rumore sordo che si avvicinava sempre più e faceva fuggire tutti quegli Animali che mai avevano avuto tanta strana paura, davanti a nulla, e ora arretravano al cospetto di un suono così inascoltato e misterioso.


Passarono alcune settimane.


Poi al suo tronco si avvicinò una bestia goffa e rossa.


Sbuffava e urlava, con quel suono sentito prima e moltiplicato ora per mille.


§


La bestia lo abbrancò, lo strinse quasi alla base del tronco ed una lama iniziò a roderlo, a tagliarlo, fino a quando Ramòn non cadde con un urlo lungo e straziante, schiacciando la bestia rossa.


Era caduto sopra il suo assassino, per un suo errore o per volere del fato.


§


Passarono diversi giorni e Ramòn si sentiva ancora vivo.

Solo che non vedeva più il suo lago e l’aquila non si posava più sulla sua chioma.


I pettirossi non lo abbandonavano.

Non si sentiva abbandonato.

Ma gli mancava il vento, l’aria, il cielo ed il suo lago sereno, azzurro, a tratti grigio o blue.


Poi un mattino tornarono le bestie rosse di ferro e lo strinsero, lo tagliarono in mille pezzii.


Fu imballato e sistemato su enormi rimorchi, poi portato al lago e gettato nell’acqua.


§


“Ramòn …”

Si girò piano e vide un grosso castoro nuotargli accanto…


“Non sapevo che tu potessi muoverti … Ramòn …”


§

Lentamente, a pezzi l’albero avanzava spinto dal vento.


Provava una nuova sensazione, come di una persona sola che fosse divenuta mille, o forse più.


Avvertiva e sentiva con tutti i suoi frammenti, vedeva e ascoltava una realtà che si era moltiplicata.


Cosa era mai successo?


La morte che gli avevano dato si trasformava in mille vite.


§


Non era più il rifugio del pettirosso e della lontra, dell’aquila e della gazza.


Era un gruppo compatto di grossi tavoloni che si dirigeva verso l’emissario del lago.


Giunse all’imbuto e si diresse avanti, lungo il grande fiume.


§


Sulle sponde vedeva tanti Ramòn, uguali a come era lui prima.


Lo guardavano stupiti, quasi non lo riconoscevano.


Non poteva fare altro che osservarli, pieni di vento e di azzurro, mentre ora lui era solo frammenti di albero nel fiume.


§


Passarono i giorni e giunse in un tratto del fiume che si allargava, pieno d’altri tronchi e tavoloni.


Si confuse con altri colleghi, conobbe gente nuova, ma restava uno, pur in tanta complessità.


§

“Scusa …mi daresti una mano? …”


“Certo … tu chi sei?”


“Sono Ramòna … e tu?”


“… Ecco … io sono Ramòn …”


§


Fu così che si conobbero, Ramòna e Ramòn, due pezzi d’albero capaci di aiutarsi, di darsi una mano anche se le mani non le avevano più.


Due alberi senza rami né foglie, a dire il vero anche senza voglie.


Si tennero vicini, nell’acqua immobile della rada, fino a quando non li arpionarono e non li sistemarono su un grosso camion giallo.


§


“I due avevano deciso di stare insieme. E quello fu in un certo senso il loro viaggio di nozze … o viaggio di cozze, visto che erano stati in ammollo per mesi.


Il loro legno era sodo e vigoroso.


Durante il viaggio si giurarono di rimanere insieme sempre.


Ma ormai non avevano radici, non erano alberi con una dimora stabile.

Niente di peggio, per un albero, che essere fatto a pezzi.


§


Dopo un lungo viaggio giunsero in un posto ampio e assolato. Rumoroso.


Furono presi tutti e sistemati all’ingresso d’un enorme capannone.


Grosse bestie rosse uguali a quella che li aveva tagliati e separati dalle radici li afferravano e li portavano dentro il capannone.


Qui venivano presi uno per uno e tagliati in tavole regolari.


I frammenti che cadevano a terra erano ammucchiati in un angolo e caricati su altri camion.


Ramòna e Ramòn, sistemati e ben ridimensionati in altri pezzi, furono caricati su un camion blu e portati lontano.


Un ontano che se ne va lontano …


§


Giunsero che era notte.

La mattina dopo si ritrovarono in un grande piazzale .

Si sentiva sempre quel rumore assordante.


Animaletti pallidi con guantoni e occhiali, con orecchie tappate, li afferravano con le loro bestie rosse e gialle, più piccole delle prime.


Dopo qualche tempo vennero portati dentro.

Di nuovo li fecero a pezzi e li unirono poi formando organismi più complessi.


Li verniciarono e li imballarono.


Ramona così venne ad essere separata da Ramòn.


§


Ancora un lungo viaggio la attendeva.


Infine giunse davanti ad un fabbricato ampio.


Venne portata in una sala ampia, con quattro grandi vetrate ed un muretto grigio con un mandarino da guardare ogni tanto.


La misero accanto ad un disegno raffigurante un cavallo.


Alla sua sinistra, una grande bandiera a tre colori.


§


Era sola.


Era uno scaffale di bilioteca.


Vuoto.


§


Entrò ad un tratto una persona trasandata con un altro tizio

Messo quasi peggio.


Avevano i capelli grigi e parlavano con grande seriosità, quasi con sussiego.


“Qui mettevano la Tveccàni … cevto …”


Diceva uno.


L’altro annuiva.

Era quasi mezzogiorno, quando la goffa porta di metallo si spalancò.


Entrarono un paio di persone che scaricarono grossi pacchi.


Poi i pacchi furono aperti e i tizi scaffalarono i grandi volumi nuovi e odorosi di stampa.


Una enciclopedia tanto ingombrante e pesante quanto bella da vedere.


Marrone, con le scritte oro in brossura.


§


Chiusero poi la portaccia e Ramòna restò sola sotto il peso grande dei libroni.


§


Ma era forte e reggeva molto bene.


§


Peccato fosse così sola, e il ricordo del suo Ramòn non sempre bastava a tenerle compagnìa.


Gli alberi sanno essere soli, restare fermi, eppure si muovono al vento e possono guardare molto lontano …


§


“Ramòn …”


Scappò detto a Ramòna …

§  “Dimmi …”


La voce veniva da uno dei volumi, il XXIX REH ROMANI della Grande Enciclopedia Treccàni.


“Zitta, Ramòna, per carità, o mi sistemano in qualche altre stanza …Mi hanno trasformato in carta, da quel mucchio di trucioli che ero, e sono capitato ancora con te … sarài il mio sostegno, Ramòna …”

§


“Si … Ramòn … saremo gli alberi più istruiti dei dintorni …”


§


In quel momento nel piccolo spazio verde davanti alla biblioteca di Ramòn e della sua compagna si sentì un usignolo che cantava una canzone bellissima, intrisa d’una struggente e allegra malinconica, sorridente felicità.


§


Ramona e Ramòn strinsero pagine e legno e fecero di quella biblioteca ospitale il loro nido ritrovato.


“Si … metteremo qui le nostre radici …”


§


Disse Ramòn e frullò le pagine profumate di stampa come fossero rami fronzuti e foglie leggere e fruscianti …


§§§


§§


§

§§§

èta

§§§




§


la bandiera


§


Quando sollevava gli occhi dal tavolo avana dove brillavano le scintille del monitor acceso vedeva una parete di libri di narrativa.


Era il campo suo.


Il resto nella grossa stanza era composto da volumi di matematica, economia, scienza e varia cultura.


Molti di quei libri per lui erano a dire il vero indecifrabili, ma lui li sentiva come qualcosa di suo: condividevano la sua sorte, e quando si sarebbero separati, sarebbe stato per non rivedersi più.


§


Davanti alle finestre strette e alte ogni tanto arrivavano dei pettirossi e qualche gazza ciarliera e schiamazzante.


Più in alto, oltre gli scaffali metallici, alzando lo sguardo si scorgeva una vecchia bandiera, logora e sgualcita.


Uno stemma dell’Italia dell’800.


§


I colori del drappo riempivano l’ampia parete, come quelli d’un tramonto avana e rosso su prati verdi.


§


Aveva custodito molti cimeli, fin da piccolo.


Nella casa dello zio aveva visto oggetti d’ogni genere, alcuni gloriosi, appartenuti a gente del secolo precedente, ed aveva provveduto in genere a custodirli con molta riverenza ed amore.


§


Si era avvezzo a poco a poco a considerarsi quasi una specie di portabandiera, un semplice punto di riferimento nella baruffa didattica della scuola.


Non che volesse condurre qualche scontro cruento e polemico, ma certo avvertiva che i comandanti precedenti si erano quasi dimenticati di quell’ingombrante e pesante cornice dorata con la bandiera ben esposta.


§


Da quando si trovava in quella scuola, in quella biblioteca, non c’era stata pace.


Aveva svolto diverse mansioni, anche negli uffici.


Ora era solo a gestire i prestiti dei libri, le ricerche sui testi e sul computer.


§


Doveva fare attenzione a cose per lui poco congeniali.


Prestare libri, sollecitare la restituzione, andare incontro alla scarsa puntualità di alcuni utenti.


Dire che aveva sempre evitato di prestare libri.

Preferiva regalarli.

Era tutta greca l’arte del dono e assai banale il concetto del prestito …


§


Ma di quella bandiera si sentiva contento.


Non sapeva nemmeno perché.


§


“Lavorare in biblioteca è assurdo … l’orario è pesante … si mettono a posto libri vecchi e inutili … “


La  professoressa gli aveva detto così, un giorno.

Ne era rimasto colpito di striscio, se non offeso, perché ad offendersi spesso dovrebbe essere chi stradice.


§


Si trattava d’una insegnante che aveva conosciuto la notte di Natale.nella chiesetta dell’Ospedale della Misericordia, costruito grazie a Benedetto Pierini.


Il padre era ricoverato, e lui lo aveva assistito da volontario in qualche semplice esigenza.


E adesso quella tizia gli dava del catorcio.


Non era sua abitudine offendersi, ma comunque certamente nemmeno poteva dirsi soddisfatto.


§


Ma perché avevano confinato la matematica ad un ridotto uso astratto del pallottoliere dei conti e dei numeri più astrusi?

Perché le avevano tolto quell’ arte poetica e letteraria che ebbe ai tempi di Parmenide, di Eraclito e Pitagora?


§


In ogni caso, un giorno vide questa ‘’persona’’ entrare nella sua stanza dei libri e guardare la bandiera con la curiosità d’una rigattiera.


Capì che si progettava di portarla via.

Ma quasi sperò che non accadesse.


§


Già era successo così per un libro, che lui non aveva mai neppure visto, su cui si era svolta una conferenza, nell’aula magna.


Non era andato, perché era in orario di servizio.


Ma era andata sua moglie, che aveva studiato con il professore referente.


Un testo di vecchia data, presentato anche a quella conferenza, e mai fatto a lui vedere, era stato poi messo, a quanto poi aveva capito, nella cassaforte della scuola.

Un libro trattato con ogni riguardo, come dovrebbero essere trattati tutti, contrariamente agli altri libri, scaffalati e tutto sommato trascurati.


I libri sono fatti per essere letti, ma nelle nostre care scuole non sono nemmeno divani o poltrone.

Sono meno che sgabelli…


§


“Ma senti … aveva pensato … vai a vedere che adesso la biblioteca ha della dipendenze, negli uffici più segreti della scuola.


E’ come un tempo, allora.


La biblioteca è addirittura il centro, e non la periferia della Scuola … e del resto è intorno al cuore costituito dalla sala dei manoscritti che si è sviluppata l’attività didattica, complementare e accessoria, r non viceversa …

Sono nate prima le biblioteche, gli archivi, e poi i laboratori per curare i testi e le scuole, come sede di lettura, di ‘’lectio’’.


Ma tutto questo era stato come dimenticato e gli accessori, aule, uffici e servizi, con laboratori e palestre, erano stati trasformati in sedi principali.”


§


Passarono i giorni e dovette parlare con diversa gente negli uffici per sistemare una parte dei libri.

Inventariare e catalogare, collocare.

E spolverare.

Diede una sistemata a tutti i volumi della grande stanza.


Riportò anche a casa una certa quantità di volumi che aveva comprato e che usava anche per aggiornamento personale.


Erano libri in greco, in latino, di varia letteratura, di storia e di filosofia.


Alcuni gli erano serviti anche per colmare le carenze d’una biblioteca evidentemente troppo tecnica.


§


Aveva dovuto portarli via perché confondevano il lavoro di catalogazione, come gli era stato fatto notare.


Così un giorno li aveva presi, insieme ad altri oggetti che aveva usato per l’ordinario lavoro suo, e li aveva portati a casa di sua moglie, dove abitava.


In biblioteca, in barba a ogni norma, stavano per essere addirittura catalogati, senza che appartenessero alla scuola e quindi senza che fossero stati prima inventariati.


I libri nuovi, che comprava nei suoi giri nelle librerie, li aveva  così infine donati alla biblioteca del Misericordia.

I pazienti, i degenti, avrebbero avuto molto da leggere, grazie a questo suo gesto.


Qualche anno prima era stato proprio lui ad organizzare la biblioteca dei pazienti nella biblioteca del reparto attiguo a quello di neurologia, dove aveva avuto mansioni di volontariato ospedaliero.


Non era forse ‘’ancora’’ iscritto alla facoltà di psicologia a Roma?

Non aveva avuto il tempo per laurearsi, ma ne aveva fatto di esperienza, diciamo così, indiretta.


Non conosceva forse Prometeo il fuoco e le aquile forse meglio di Zeus, re degli dèi,  e le catene e gli uomini  meglio di Efesto, dio del fuoco e della metallurgia?


Ne conosceva le conseguenze.


Dottori si diventa, pazienti  si nasce.


§

Tornato in biblioteca, dopo il suo colloquio negli uffici, notò una mattina che era stata tolta la bandiera.


§


Senza che nessuno gli avesse detto nulla.
E proprio mentre lui era a colloquio con i coordinatori delle attività scolastiche.


§


Nella stanza dei libri era rimasto il disegno d’un cavallo.

La testa dell’animale si combinava benissimo col resto della elegante enciclopedia Treccani con tutti i suoi aggiornamenti, così da sembrare una sola cosa con il resto della biblioteca, visto che dal cavallo della Battigalli si snodava la sequela dei libri, a partire dal viaggiatore di Italo.


§§§

§


Era una specie di cavallo di Odisseo, contenente migliaia di Autori esperti, saggi, forti potenti e … pazienti.

Adesso risultava spostata, la bandiera, su un’altra collina adiacente, accanto alla cassaforte del libro antico che lui nemmeno conosceva, ed ora la biblioteca era affidata alla testa fiera e crinuta d’ un focoso puledro, come in una fascinosa teoria di Platone sull’Anima, composta da un Auriga e due cavalli, uno bianco e docile, l’altro nero e indomabile …


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La Mamma dei piccioni



Dapprima l’avevano sistemata nella Piazza del Sale, dove un tempo si raccoglieva il prezioso additivo degli alimenti.


Poi l’avevano spostata fuori le grosse mura di mattoni.

Mura medicee della città antica.


Se ne stava alta sopra un piedistallo, grande con un mantello di bronzo e stringeva a sé i figli, per proteggerli dalla morte, dal dolore, dal male.


Intorno non c’era quasi mai nessuno.

Prati, aiuole e tanti piccioni,

A vederla, mi sembrava quasi una sola grande famiglia.


Vicino, illuminata, la sede d’un bel supermercato.


Quando mi fermai la prima volta, posai la bici da corsa all’ingresso ed entrai, come se un ciclista del Giro si fosse fermato per il rifornimento al sacco.


Presi tre baghette. Pagai alla cassa ed uscii.


Sulle strisce una signora non mi vide e mi investì con la sua Audi.


§


Si ripeteva un rituale sgradevole e tragico.

Il muso grigio dell’auto che si avvicinava, io che avvertivo l’inevitabilità dell’urto, il volo senza ali ed il rumore dell’atterraggio doloroso.


Poi i tentativi di rialzarsi, gli occhi che cercavano la bici e le scuse dell’investitore.


Non mi ero fatto gran che.


Feci andar via le due donne a bordo dell’auto tedesca e risposi ad un’altre signora che probabilmente non c’era bisogno di nulla.


Ero stato fortunato, come il 25 marzo del 2004, quando un giovane mi aveva investito con un furgone Mercedes dopo che non aveva rispettato lo ‘stop’.


Anche allora, dopo un volo pauroso, con l’aiuto d’una qualche buona anima me l’ero cavata con vistosi lividi, ma senza fratture.


§


Con le tre baghette andai verso il piccolo prato sotto le mura e gettai i pezzi di pane ai piccioni.


Era grazie a loro ed alle tortorelle del mio quartiere, da casa alla scuola, presso la chiesa del Sacro Cuore, se ero ancora vivo.


Non avevo ali, certo, ma qualcosa dovevo aver pure appreso circa l’atterraggio, che è la fase più banale ma anche la più  delicata del volo.


§


Dall’alto del suo piedistallo bianco, la Mamma dei piccioni guardava lontano, nel caso che arrivasse un aereo nemico, ma peggio ancora se amico, a mitragliarci per calcolo esatto o per tragico errore.


Per fuoco amico.

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il cancello

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Era tardi.

Quasi l’ora di chiudere bottega e andare a casa.

La bottega di Orlando era un ufficio, un ampio stanzone d’una scuola qualsiasi.


Una grande scuola poco tempo prima, una scuola in decadenza ora.


Aveva chiesto di lavorare in quell’ufficio come per una esigenza di mettersi in contatto con l’istituto.

Per frequentare insegnanti, custodi, alunni e impiegati.


Gli pareva di vivere in india, con una società divisa in caste.


Si era accorto presto di essersi illuso.


Senza una sede fissa, senza neppure una sedia, privato persino di macchina da scrivere e computer, ormai era simile a un libro, alla balìa di gente distratta, attenta solo ai propri interessi di tavolo.


A poco a poco si era rifornito, a prorpio spese, del necessario per il lavoro ed aveva ottenuto un piccolo computer con cui scrivere i numerosissimi documenti occorrenti per il suo lavoro.


Forse esagerava a non ridurre tutto a pochi foglietti, ma gli sembrava opportuno svolgere ogni pratica al meglio, non solo per propria serenità, ma anche per il successo dei progetti della scuola.


E così faceva tardi, entrava per primo e usciva per iltimo.


Le ore svolte in eccesso si accumulavano, e così sarebbe stato per gli anni seguenti.


Qualche anno dopo sarebbe stato in vantaggio di un anno, come gli avrebbero detto all’ufficio Personale.


Eppure il Dirigente non si era minimamente preoccupato mai di assicurargli che le ore gli sarebbero state retribuite, come accadeva per tutti gli altri dipendenti.


§


Anzi, qualche volta, dimenticandosi di lui, lo avevano chiuso dentro l’atrio antistante l’ingresso della scuola ed aveva dovuto scavalcare un’alta ringhiera per uscire.


Con rischi d’ogni genere.


Così quel giorno stava mettendo a posto le numerose cartelle sul vecchio tavolo.

Non aveva un armadio da usare all’occorrenza.

Per i responsabili dirigenti e direttori il suo lavoro era da svolgere al cielo aperto, evidentemente, e chissà, forse tutto questo era didattico, terapeutico, catastematico ed apotropaico …


Ad un tratto si accorse che era entrato uno degli impiegati.


“Senti…”

gli dice con grande confidenza.

“Mi hanno detto che prima di lavorare qui eri un ottimo insegnante … come mai sei andato via dalla tua scuola di prima?…”


§


“Che mentre stessi lavorando un impiegato si permettesse di venirmi ad intervistare, per di più su cose trascurabili e private di cui peraltro ogni pettegolo avrebbe dovuto conoscere tutto, mi sorprendeva.


§


“Vedi…”

gli risposi

“Se chi ti ha detto una cosa del genere si fosse impegnato per gli interessi comuni con lo stesso entusiasmo con cui distribuisce complimenti non richiesti a vanvera, le cose andrebbero meglio per tutti.

Piuttosto, ti voglio dare un saggio sulla linguistica dedicato ai miei alunni, così ti farai un’idea su cosa dicevo e facevo a scuola”.


§


Gli diedi Cenni di Linguistica, dedicato al Professore Arnaldo Corrieri e ai miei Alunni del Ginnasio.


§


Qualche anno dopo quell’impiegato ebbe bisogno di lezioni di latino per il figliolo.

Andai a casa sua per un paio di mesi a insegnare quella antica lingua, gratuitamente, accettando solo un bicchiere d’acqua alla fine d’ogni doppia ora di lezione, mentre babbo e figlio guardavano la TV e mangiavano pane e mortadella.


Infine, un giorno mentre uscivo dalla scuola sentii l’impiegato gridare … “aspetta … aspetta …m’hai chiuso …”


§


Era fuori dalla scuola e parlava con un collega.

Non lo avevo chiuso fuori, perché era rimasto ancora dentro un assistente tecnico.

Quel giorno gli alunni erano andati a cinema, durante l’assemblea studentesca, e quindi eravamo pochi negli uffici.


L’unico inconveniente, in assenza fisica ma non virtuale di capi di istituto e direttori del personale era stato causato da quell’impiegato, che molto probabilmente invece di fare il sovrano avrebbe dovuto rendere anche a me più efficiente quel giorno di permanenza scolastica in discipulorum atque consulum absentia.



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Non l’ho rivisto più, nemmeno nella biblioteca, dove ogni tanto si presentava per le sue interviste impossibili.


Ma certamente mi guarderò bene per il futuro dal bere acqua calda, e non gasata, a casa di quel mio … amico.




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kàppa

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la Formica


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Aprì la finestra e l’aria fredda entrò nella grande stanza.

Il cieli era grigio di nubi e scendeva una pioggia sottilissima.


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Lo aspettavano più di sei ore di lavoro.

Incontri estemporanei, quelli della scuola dove era.


Ci si aspetterebbe un’attività programmata, in un certo senso, per la lettura e la ricerca.

Ma erano non troppo numerosi i docenti che spedivano i loro alunni a prendere in prestito libri determinati.


In genere chiedevano testi che non erano presenti, e del resto si compravano pochissimi libri, quasi nulla, e non si seguivano certo le indicazioni nemmeno richieste del librologo, il bibliotecario.


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Che parola scèma …

Mastro libraio, librario, acchiappanuvole, sarebbe stato meglio chiamarlo così.


Dream buster …



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Si dava da fare, leggeva, spolverava i libri e gli scaffali, metteva a posto la Gazzetta Ufficiale e le poche riviste sparse che arrivavano, lì, nell’Ufficio sgangherato dell’ultimo Ufficiale della Guarnigione del Deserto dei Torturi, dei Tartari …


Scriveva lunghi elenchi dei libri ancora da catalogare, libri di cultura locale, non di narrativa.


Aveva sempre poco amaro romanzi e racconti, aveva sempre preferito la saggistica.


Ma adesso per dare libri in lettura gli occorrevano libri di narrativa freschi, saporiti e possibilmente ammessi dalle regole arcaiche della scuola.


Per tutta l’estate aveva scritto ad uno scrittore di Successo.


Scrivere ad uno scrittore per un bibliotecario deve essere come per un nuotatore scrivere ad un impiegato della Ferrarelle o della San Benedetto.


Aveva consumato i polpastrelli, nella sua piccola casa al mare, durante le ferie.


Nell’inverno aveva preso l’abitudine di girare per le librerie della città e comprare libri utili per gli utenti.


Libri di Autori classici, anche  contemporanei.

Non freschissimi di stampa, come certi ultimissimi geni dell’ink del link e del word atque similia.


Goethe, Foscolo, Morante, Calvino, e così via.


Nelle scuole si dovrebbe leggere e scrivere, ma si rendeva conto che così non si faceva.


Nemmeno si era capaci di consultare il catalogo e cos’ venivano in tanti a chiedere lo stesso volume.


Così spesso era utile averne una copia, anche non necessariamente appartenente alla scuola.


§


Il sistema si era incrinato un bel giorno.

Era stato deciso di connettere e collegare in rete la biblioteca con le altre della provincia.


Una operazione semplicissima, visto che negli anni precedenti era stato sistemato tutto il necessario per usare Internet nella biblioteca.


Tutto, virtualmente e virtuosamente, era stato predisposto.

Tutto era stato predisposto.

Computers, vecchi ma efficienti, il filo di collegamento per le porte Usb, la cui sistemazione lui stesso aveva sollecitato in Comune, catalogo dei libri pronto, da aggiornare eventualmente con libri recentemente entrati e inventariati.


Si era iscritto alla Associazione Documentazione Biblioteche e Archivi ed aveva installato il CDS ISIS.

Questo automaticamente aveva inglobato i dati dell’ ISIS30 precedente, che conteneva le indicazioni bibliografiche immesse prima.


Era stato assai semplice.


Eppure, sebbene da dicembre tutto fosse pronto, non s’era fatto più nulla di nulla.


Inutile sollecitare o chiedere.

Gli avrebbero detto che aveva fretta, che doveva fidarsi.


E intanto, vedeva che le cose chieste per la biblioteca, fredda e disadorna, venivano cocesse al resto della scuola.

Così in effetti era diventato il Principe Felice di quella scuola, tanto più povero e spoglio quanto più si facevano ricchi e benestanti i suoi ex sudditi e amici, che nemmeno sapevano la fonte indirettamente foriera di tanto bene.


Meglio così.

Tutta la scuola era in realtà una biblioteca, e occorreva prima dare ogni comodità a funzionari e custodi, poi si sarebbe passati ai docenti e quindi alla stanza della biblioteca vera e propria.


§


Per ora, lui aspettava.

E sgranocchiava cracker che gettava anche a pettirossi, passerotti e tortore.


Aveva notato che le gazze, chiassose e frettolose, dette ‘ladre’, in realtà erano quelle che mangiavano meno.


Perché agivano nella fretta e nel chiasso.

Quelli che hanno fama di ladri, a volte sono più onesti dei predatori silenti e pazienti.


§


Una piccola formica, fuori dalla finestra, aveva preso un grosso frammento di cereali e lo stava portando in famiglia.

La vide allontanarsi.

Laboriosa e perfetta.


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làmbda

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il corridoio dei segreti

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Se qualcuno, provenendo da altra parte della scuola, nel colmo della mattinata si fosse imbattuto in uno dei tanti funzionari proprio nel centro del loro corridoio e avesse chiesto …

“è pronto quel documento?” …

“non lo so …”

si sarebbe sentito rispondere.


E se invece, giungendo dalla intirizzita stanza dei libri, avesse domandato …

”è possibile incontrare la commissione?…”

“non lo so …”

gli avrebbero detto.


§


A questo punto si sarebbe reso conto d’essere giunto nel corridoio dei segreti.


§


Il corridoio dei segreti era la fonte di ogni direttiva per il grande palazzo.


Qualsiasi cosa, ogni iniziativa partiva o si autorizzava proprio lì, nel tratto dalla vetrata opaca alla grande boccia d’acqua fresca antistante le due porte dei water.


Il water dei funzionari e quello dirigenziale.


Mancava uno per i poeti.


Il poeta water…


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Spesso il corridoio dei segreti era in soqquadro, come una strada sempre in rifacimento.


Come la … senese.


Ma era buon segno.


Prima sistemavano il resto del mondo, prima mettevano a posto

Anche il resto.


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Un bel giorno decisi di farla finita per un po’ con la carta e di presentare una bella domanda di congedo, visto che ne avevo diritto.


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Andai in fondo al corridoio dei segreti, dove sapevano tutto di tutto ma non dicevano niente di niente se non di quando in quando e chiesi di poter presentare la domanda che mi stava a cuore.


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Ma non ci fu verso.

Non mi riconobbero e non vollero dirmi chi ero.


“Non lo so … non si sa …”


Mi dicevano.


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l’assemblea

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Il responsabile del coordinamento interdisciplinare e condottoriale per tutto l’istituto era assai preoccupato.


Cosa fare?


Il clima instaurato dai bulletti, i bulli d’appena un etto, era stato insopportabile, fino a pochi mesi prima.


Ma ora…

Un pericolo ancora più grande si prefiteròl all’orizzonte…

Un bullone … completamente svitato … imperversava nei corridoi.


Era l’inizio della fine.


Al bullismo si sarebbe succeduto il bulloniamo, e a quel punto sarebbe intervenuto il Grande Avvitatore, e poi lo Svitato sarebbe stato sistemato, ma a quale prezzo …


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Occorreva consultarsi con l’unico che avrebbe saputo cosa fare, per esperienza lunga e genialità operativa.


Impano, come lo chiamavano, l’ideatore della Comune Gioventù  libera & alternativa .


Lui avrebbe spanato ogni cattiva vite male affilata, l’ avrebbe indirizzata appositamente, rifilata ed in seguito avvitata bene.


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Così fu organizzato un piano programmatico propedeutico, che comprendeva qualche mese di attività alternative alla lettura, giochi antieducativi e assemblee.


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Nella assemblee, invece di parlare dei temi e dei problemi inerenti la questione giovanile, come l’uso precoce di tante cose assai nocive, l’approccio alle attività benefiche, fu deciso di assistere, ben lontano dall’edificio scolastico, alla proiezione di film come … Paranza criminale, Scusa se ti faccio un piacere, Per uno schiaffo di euro, Lawrence di Rabbia, Mal Hur ed altri capolavori simili.


In tal modo, trasformata la scuola in un folto gruppo si svitati, sarebbe stato sconfitto il bulloniamo e spanata ogni mala vite.


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Prese la sua bella sportina, ma molti la chiamavano mappatella, e inforcata la bicicletta, tenendo la torta di ricotta con una mano e maldestramente il manubrio nell’altra, fatti pochi metri sul marciapiede cadde, mentre il carter si accartocciava e la catena usciva dalla moltiplica.


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Si era spanata una vite, un bullonino …



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il vocabolario

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Era elegante, ampio, ricco di pagine bene assortite e distribuite.


Ogni parola era ospitata adeguatamente e cortesemente sulle pagine bianche.


Aveva posto nello scaffale accanto alla Treccani e non si assentava mai.


Solo quando qualcuno aveva bisogno del suo aiuto poteva uscire, e per poche ore, un vocabolario.



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Lui no.


Non lo volevano, perché era un vocabolario serio, conteneva etimi greci e si chiamava Dario.



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Una sera venne una signora che aveva bisogno d’un dizionario di Italiano e lo vide, nello scaffale.


Elegante, marroncino.


“Guarda … è il vocabolario che usavo da bambina … E’ uguale …

Posso usarlo? …”



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“Certo … può usarlo quanto vuole … E’ il miglior vocabolario del mondo …”.



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Così Dario fu utile nei Corsi serali per molto tempo e poté ascoltare le spiegazioni dei docenti e le interrogazioni degli Alunni adulti, tanto più sapienti di quelli giovani e spensierati.



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il computer

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Era piccolo, grigio, con uno schermo ridotto, ma funzionava bene, era preciso.


Decise di farsi chiamare Lazzaro, perché era stato configurato e installato il 17 dicembre, San Lazzaro.


Era contento di lavorare per Paride.


Quando lavoravano insieme erano amici anche i Mirmidoni, le imbattibili Formiche di Achille di Peleo e Teti.


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Ma un giorno li separarono, e forse la colpa fu di Paride, che non aveva capito che si sarebbero vendicati, se lui avesse cambiato stanza, tornando a quella che gli era congeniale.


Lazzaro finì in una stanza di magazzino, lui che aveva scritto a Karol in latino, un giorno in cui Paride, ultimato il lavoro e superate le sue sei ore di servizio, aveva deciso di raccontargli una storia che riguardava suo Padre, la Luce e la Madonna.



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òmikron

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La gabbia dei gatti

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Il corridoio era in subbuglio.

Ferveva di lavori.

Era stato deciso di installare l’aria condizionata nelle stanzette degli uffici.

Ogni stanza avrebbe avuto il suo bel climatizzatore, in alto, sopra la porta, con la lucetta che si accendeva e spegneva e l’aria che variava di temperatura a seconda degli impulsi telecomandati dalla scrivanìa corredata di moderni computers pentium con schermo piatto, stampante fax  e mouse senza fili,.


Mancava solo ormai un fornetto a mikroonde, e poi tutto sarebbe stato perfetto.


C’era da stare allegri davvero.


Era la biblioteca che si arredava al meglio, iniziando dalle sue posizioni più periferiche.


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Un giorno la scuola tutta e non solo la sua si sarebbe ricordata che occorreva instaurare una diversa politica della lettura e della ricerca, abbandonando le vecchie e ormai dannose concezioni sui libri, considerati oggetti dannosi, quasi.


Quante relazioni e quante lettere erano state spedite, e tutte persino annotate e protocollate nell’Ufficio dei Segreti, sulla necessità di dare regole alla lettura, all’acquisto dei libri, all’uso di Internet, selezionando solo siti utili alle ricerche ed escludendo quelli inutilmente ludici, frivoli, dispersivi.


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Quanti alunni erano venuti solo perché la scuola li spediva in biblioteca perché non sapeva effettivamente dove tenerli, ed avevano trovato, se stranieri, vocabolari e grammatiche, possibilità di esprimersi oppure la semplice opportunità di studiare.


Ma spesso la scuola aveva ignorato tutto questo, limitandosi alla didattica del parcheggio, alla non didattica dell’andate in biblioteca se non fate religione.


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“Buongiorno ragazzi… posso darvi dei libri…?”

“No … siamo qui perché non facciamo religione …”


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Qualche anno prima aveva scoperto che fra i tanti motivi che possono spingere ad un uso aberrante della biblioteca, ossia l’uso di essa come ripostiglio, dispensa alimentare , sede per riunioni varie e stanza della sistemazione del registro, tutte cose per fortuna del tutto sparite, eccetto sparute eccezioni, c’era anche quella di sistemare in un luogo addetto alla lettura silenziosa gruppi di alunni che, senza un fine mirato di ricerca bibliografica, dovevano solo parcheggiarsi nell’attesa che finisse l’ora d’una materia che non aveva interesse per loro.


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Si era così abituato a queste visite.


Aveva conosciuto alunni ed alunne di religione musulmana, cinesi, russi, macedoni, africani del nord, dì una terra vicina a Cartagine, a Tagaste.


Solamente quegli Alunni, e questo era incredibile, gli avevano fatto gli auguri a Natale, a Pasqua.


Insieme a qualche custode.


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E così era arrivato Luglio.


La temperatura era salita molto, ma non era eccessivo il fastidio del caldo estivo.


Una notte dalla finestra della camera che dava sulla piazza davanti casa gli parve di sentire un miagolio.

Si fece più forte.

Carmine uscì e vide un gattino piccolissimo, bianco e nero che si era arrampicato sotto un grosso fuoristrada.


Proprio come aveva fatto l’anno prima Grigio Meccanico, il bel gatto che frequentava la casa.


Dopo vari appostamenti decise di farsi consegnare il gatto da una vicina di casa, che aveva telefonato informando d’aver catturato il vivace felino.



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Era una piccola furia.


Come tenerlo?


Carmine ebbe un’idea.

Comprò una grossa gabbia per tortore e piccioni e sistemò lì il gattino.

Per lui fu scelto il nome di Alessandro, perché aveva una sfumatura di colore diverso agli occhi.



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Andarono al mare, nel mese di Agosto, e Alessandro crebbe, fino a quando non lo feci uscire dalla grossa gabbia, che aveva protetto la sua esuberante natura da eventuali reazioni degli altri gatti già adulti.


Così era stato fatto, ma in parte minore, per Grigio.



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Così avevano trovato e adottato il gattino, che si aggiungeva a Yle, Loi, Silva, Donatello e Grigio Meccanico.



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Il tavolo vale

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Undici sedie, dodici con la sua, tredici con la sedia del computer di biblioteca e quattordici con la sedia del computer degli Utenti.


C’era un’altra scrivania, utilissima perché nei casseti era possibile conservare i documenti.

Portata via.

Con un altro tavolo da computer, assai scomodo e simile a quelli rimasti.


Portai via.


La grande stanza era arredata con sedioline da alunni e tavoli smessi dai laboratori dei computers.


Nemmeno era stato inserito il suo nome, con  le indicazioni sull’uso della biblioteca nel sito della scuola.

E dire che lo aveva fatto presente.


I documenti della biblioteca erano praticamente una relazione di metà anni settanta sulle carenze vistose della amministrazione dei libri, qualche relazione scritta dal bibliotecario che lo aveva preceduto e le sue, consegnate anche ai dirigenti e direttori della Scuola, protocollate e spedite alle altre autorità scolastiche provinciali, regionali e nazionali.


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Paradossalmente gli avevano risposto la Presidenza del Consiglio dei Ministri, la Presidenza della  Repubblica, il Provveditore agli Studi, la Segreteria del Vaticano, cui aveva diffusamente parlato dei tutta la sua situazione scolastica e della esperienza paterna, interessante soprattutto per la Chiesa, e soprattutto per il Pontefice, Karol di Polonia.


Ma dalla sua scuola gli aveva dato risposte lacunose, quasi inesistenti.


E dire che si era offerto anche di svolgere gratuitamente il ruolo di docente bibliotecario con specifiche deleghe per l’acquisto di libri ed altre attività affini, sempre nell’ossequio delle direttive scolastiche.


Ma le direttive scolastiche erano di continuare la politica del biblioblìo.


Le scuole, insomma, da troppo tempo avevano deciso di puntare su altre forme di informazione.

E questo, insieme alla tendenza a trascurare il lato etico ed affettivo della didattica, aveva portato alla decadenza globale di tutto il settore scolastico.


Invano qualcuno si era opposto allo sfacelo.


Era stato emarginato, privato del contatto diretto con i giovani e i genitori, del resto sempre pronti a concedere vizi ai figli e giustificare ogni loro capriccio, fornendo loro tutte le scorciatoie possibili.


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Ora, le scorciatoie avvicinano le mete, ma viziano, impediscono la visione delle cose più interessanti e obbligano a guardare solo la strada, per evitare le buche che riempiono le cosiddette vie brevi.


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Il computer non è che uno dei figli dei libri, ma come tutti i figli non deve dimenticare che i genitori, per quanto sia noioso e difficile, vanno aiutati, accompagnati, mai abbandonati.


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Enea fu un figlio esemplare, con Anchise sulle spalle uscì dalla sua Ilio distrutta e giunse in vista dell’Enotria.


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Ma tutto questo è noioso, pesante.


Per molti è meglio piantare i padri e le madri, che del resto sono abbastanza sciocchi da dimenticare ogni offesa, e gettarsi nel nuovo, nel rivoluzionario, che spesso poi delude.


Così nella scuole non si legge, non si scrive, si trasformano le biblioteche in magazzini di carta poco amata.


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Invece ogni ricerca, ogni lettura viene scaricata, come un fagotto o un fastidioso peso, ogni argomento viene praticamente trasferito da un autore alla stampante, senza capire, senza gustare. Senza leggere e scrivere.


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Insomma, eliminata la fatica, con notevole spesa per macchinari sempre più sofisticati, si atrofizza il cervello, e fra menti pigre fioriscono il fiori rari della scaltra furbizia.


E pensare che anni fa la scuola è stata avvisata, ma ha pensato bene di non ascoltare.


E così adesso deve fare i conti con il prorpio stesso fallimento, con il teppismo, con bulletti che presto saranno bulloni.


Si è pensato bene di accusare gli onesti di pessimismo, e praticando l’interesse proprio, le scorciatoie didattiche, allontanando i capaci e i giusti, si è consegnata la scuola alla didattica del doppiolavorismo, dei sotterfugi, delle macchinette segnaminuti gestite in modo opinabile, imposte anche a persone che invece sarebbero state in grado di osservare anche troppo gli orari.



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Pensava, Leonida, che un tempo, per almeno trent’anni, aveva avuto migliaia di Alunni.

Non faceva praticamente assenze.

Era puntualissimo e passava molte ore in più a scuola, lavorando in biblioteca, aiutando.


Aveva fatto anche il Preside, raddoppiando l’orario.

Aveva contribuito alla nascita d’un Liceo Scientifico.


Adesso, dopo che i suoi colleghi di liceo avevano eliminato la sua cattedra di letterature classiche per far posto ad un linguistico, provocando la conseguente crisi della scuola e la perdita dell’autonomia con i fastidi che ne conseguono, si era deciso a lavorare in una biblioteca, in un’altra città.



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L’orario era raddoppiato, e forse era un bene che gli avessero imposto, senza che certo lui fosse convinto d’una simile cosa, di segnare elettronicamente e registrare al computer dell’ufficio personale il suo ingresso e l’ora di uscita.


Non usufruiva mai nemmeno dei quindici minuti concessi agli impiegati a metà mattina.


Era legato alla sua stanza, ma naturalmente, in veste di Pubblico Funzionario di Stato e Pubblico Ufficiale, in caso di necessità avrebbe fatto a meno di quell’infantile sopruso.



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Si era accorto, però, che in sei anni di lavoro aveva svolto, visto che non gli era concesso nemmeno il lavoro straordinario, aveva accumulato più di mille ore in più.


Praticamente invece di sei ore, ne aveva svolto almeno sei e mezza, sette.


Questo perché il controllo impostogli, lo spingeva ad essere severo con se stesso.

E del resto, il lavoro gli piaceva.

Per quanto strano.


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Un giorno, avrebbe chiesto alla scuola non di comprare libri o di provvedere ad arredare meglio la biblioteca, di controllare e riparare le finestre sgangherate, di controllare l’impianto di allarme antincendio, simile ad un alberello di Natale dalle luci impazzite tipo effettto Las Svegas, ma di riconoscergli le centinaia di ore fatte in più.


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In ogni caso, si sentiva un pilote, o un ciclista, che avesse dato un distacco notevole al groppone dei corridori con macchine e bici nuove, con le ammiraglie pronte a rifornire e soccorrere ad ogni guasto.



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Da solo, quasi provvedendo personalmente, comprando libri nella librerie della città, aveva  praticamente staccato decisamente i docenti e probabilmente anche gli altri.




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Ora, tolte le cose inutili dal computer, aveva raccolto le lettere, le relazioni, tutti i documenti dei viaggio di istruzione e le ore registrate ai docenti per le attività estradidattiche su vari CD e CDRW.



Il tuo tavolo, che avrebbe dovuto essere affiancato da uno più ampio, ovale, secondo i sogni della scuola, come quello della Tavola Rotonda di King Arthur, aveva lavorato bene.


Era in realtà una cattedra.


Quanta delicatezza, togliergli gli Alunni, dopo trent’anni di lavoro ineccepibile, interrotto solo dalla furba cospirazione di un gruppo di politici dilettanti e di inservienti vari, e lasciargli una cattedra e dodici sedie adatte ad un’aula.


Ma era meglio così.


Era successo anche a un falegname di Nazareth, ad uno studioso sardo, a tanta altra gente.



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Questo tavolo … pensò …


“Questo tavolo vale …! …”




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Il miglio perde

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C’è un film singolare e originale.


Il miglio verde.


Un corridoio abitato, in una prigione, da condannati a morte.


Lì si sviluppa una strana vicenda paranormale.


Federico non era abituato al paranorma.

Non lo capiva proprio.


In un mondo in cui tutto è strano, abnorme, che senso ha credere che ci sia una reltà che faccia concorrenza a questa, stranissima, e ancora più strana, tanto da sembrare addirittura … normale?


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Era capitato di conoscere anche a Federico un miglio, ma non quello buono amato dagli uccellini.


Un miglio che non era neppure verde.


Un miglio che ti farebbe dire … il miglio perde …


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In quel corridoio si perdeva la vita stessa, nelle interminabili ore di chiacchiere praticamente inutili, a volte malevole, nei fumi delle inutili fotocopie, nella facili scalate delle carriere di arrivati ultimi e premiati primi.


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In quel corridoio un buon corridore avrebbe facilmente staccato tutti, in fuga come ai tempi di Binda e Girardengo.



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Eppure, quelle finestre bugiarde che gli si chiudevano di fronte ad orari impossibili, scombussolandogli i programmi, gli dicevano che il potere abita a casa di chi sa maneggiare le porte, non per entrare e lavorare, ma per lanciare messaggi arcani e ingannevoli, come quei carcerati del miglio verde.


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Tratteniamoci poco, in quel bel corridoio, nel miglio.


Il Miglio … perde.


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La fondazione


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Genn entrò nella sala ristorante.

La madre e la sorella erano sedute a tavola.


Si mise a sedere.


Era la prima volta che mangiava con loro in assenza di Antonino.


Assenza che ora si sarebbe protratta per sempre.


C’erano dei canneroni al sugo, come pasta riscaldata.

Non erano niente di eccezionale.

Mangiò con rabbia.


Cosa sarebbe successo, ora?


La sera, quando nella camera della pensione passavano le ore con la sorella e la Madre, giocava ad un curioso scherzo.


Ai ministri.


Si cercava di fare un Governo e di assegnare l’incarico a chiunque sembrasse adatto.


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Adesso l’incarico più pesante toccava a lui.


Sarebbe stato quasi sicuramente un naufragio.


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E gli anni, quanti anni, passarono.


La sorella cresceva e la Madre era sempre preoccupata dei bilanci familiari.


Ma si procedeva.


Fino all’86.


Quindici anni dopo.


Ormai la scuola era avviata e poteva finalmente realizzare il vecchio sogno di Antonino.


Un sogno irrealizzabile.


Aveva conservato il suo manoscritto.


Il manoscritto predisposto al Policlinico Gemelli.


Ricordava bene.


Ma come fare?


Chi avrebbe potuto prestargli fede?


Avrebbero detto che era pura follia.


Ma doveva procedere.


Doveva realizzare un sogno.


Era come far nascere una nuova epoca, un’epoca che avrebbe completato la precedente.


Non l’avrebbe sostituita.


Tutto sarebbe restato uguale, ma avrebbe avuto fine un certo modo di considerare il mondo, il denaro, le forze della Terra e del Cielo.


Un nuovo modo di considerare la vita, gli animali, le piante.


Un modo rinnovato.


Fuori dai veleni e dal disordine metropolitano, verso una vita pulita e fresca.


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Un proposito difficile, ma non impossibile.


Per prima cosa si fece volontario ospedaliero.


Aiutava semplicemente i malati.


Imboccava col semolino, lavava i piatti, dava qualche consiglio.


Ma il rapporto con i ‘colleghi’ era arduo.


Fece delle fotocopie con il memoriale di Antonino.


In breve, in esso il Padre raccontava la sua malattia, dalla seconda decade di Marzo alla fase precedente la sua morte, il 9 luglio, al Policlinico Agostino Gemelli, a Roma.


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Solamente ora, dopo tanti anni, riusciva a trattare quel tema con una certa padronanza, senza essere sopraffatto da una emozione fortissima.


La … Fondazione Antonino era stata inaugurata.


Una piccola società fra un figlio e un padre, uniti da amicizia forte, inattaccabile.


Dovette procedere fra difficoltà crescenti, ma almeno ebbe la comprensione dei suoi Alunni, che ascoltarono il suo racconto e conobbero il memoriale.


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Dovette fermare la corsa, alla fine di maggio, perché le pressioni del contesto si fecero forti.


Si recò, quasi dietro ricatto, da un terapeuta in un Centro ufficiale, proprio nella città dove insegnava.


Per dieci anni non riuscì a fare parola di questi fatti con il terapeuta, che a dire il vero non aveva affatto voglia di ascoltarlo.


Dopo dieci anni, visto che a scuola avevano soppresso la sua cattedra di letterature classiche, non gli restò che accondiscendere ad un nuovo forte richiamo del contesto, che lo spinse a dedicarsi alla cura della biblioteche scolastiche.


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Per definizione, una tale attività era riservata a chi volesse dannarsi definitivamente, visto lo stato di abbandono e trascuratezza del settore.


Almeno dalle parti sue.


Infatti gli fu affidato un ufficio obsoleto, privo di servizi^, e la cura di altre biblioteche, eccetto quella che lui stesso aveva curato e che era in buono stato, ossia quella del Liceo che lui si apprestava a lasciare, pur di non essere costretto ad insegnare materie a lui non congeniali, dopo anni di studio della letteratura classica.


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Del resto, sentiva che doveva dare una svolta alla sua vita.


Eppure, non sapeva assolutamente dove sarebbe andata a finire.


Ma il contesto, con violenza e con forza, evidentemente credendo di poter disporre del suo destino stesso, come un poderoso clinamen lo spinse ad un cambiamento per metà imposto come una soluzione umiliante e per metà scelto come una via di salvezza da una scuola che lui aveva aiutato a far crescere, a migliorarsi, ma che ora desiderava vivere senza di lui, scegliendo soluzioni che gli parevano di comodo.


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Così tornò ad occuparsi di libri, cosa che del resto gli era congeniale.


Poi si trasferì nella città vicina.


Qui, in scuole grosse, insegnando per molte ore in giro con la macchina, si impegnò, ma non poteva ritrovare lo scatto d’un tempo.


Gli mancava un contesto accattivante e pronto.


I suoi lavori, le sue grammatiche, i suoi appunti erano considerati cosa inutile.


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Così, dopo un ultimo tentativo, si persuase che la Scuola era avviata ad un destino di decadenza, visto che rinunciava alla sua sincera devozione senza una  sincera  reazione.


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Si dedicò ad altre ‘mansioni’.


Era stato in segreteria da militare e tornò a lavorare in segreteria.


In biblioteca curò la catalogazione informatica.


Scrisse, si impadronì delle tecniche per costruire siti xoom e blog.


Diffuse dappertutto le parole di Antonino e le sue.


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Infine, vide i primi risultati.


Era come assistere all’arrivo in una Terra promessa.


Lui non avrebbe mangiato i suoi frutti.


Aveva solo visto tanti anni prima una via d’uscita, aveva formato un varco, aveva fatto ascoltare una canzone, una musica ad Antonino e ne era scaturita una nuova visione della vita.


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La Legione

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Sapeva che sarebbe successo.


Un giorno, o anche una sera.


Ma non sapeva perché.


Erano quasi sette legioni, chiuse negli armadi di metallo.

Settemila opliti, e quasi dieci volte di più erano quelli degli armadi delle Leggi.


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Li sentivano a volte muoversi, nelle loro pesanti armature, fitti dentro le pagine dei libri.


Prima di lui c’era un tizio che sentiva voci, avvertiva messaggi telepatici.

O forse faceva finta.


Come era possibile credere a simili cose, dopotutto?


Eppure, certi fruscii, certi brusii li aveva avvertiti anche il Capo dell’Istituto scolastico.


Ma c’era un bagno doppio, accanto, frequentato da tutti, e se ne sentivano d’ogni genere.


Quindi, non si poteva giurare nulla.


Ma quella gàlea sulla scrivania …


Bella lucida, forte e crinita.


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L’aveva sistemata in un armadio.


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Stava sistemando il computer.

Il mouse funzionava male.


Ad un tratto sentì qualcosa muoversi …


“Salve … ubi mea gàlea …”


“Quis es …”


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Stava davanti a me un guerriero dall’aspetto romano, non greco.

Un legionario.


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“Vobis semper socii erimus, Domi ne …”


Il centurione riebbe il suo elmo.


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Ed io seppi così che non era solo, chi difende i libri.

Per ogni volume, un soldato imbattibile e immortale combatteva, con la sua spada di fedeltà e di affetto …



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Il piedicomio

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Nelle aule, negli uffici, in presidenza, dappertutto avevano sistemano le sedie e le poltrone blu veramente a puntino.


Insellatura ristretta e due bei pedali con una moltiplica collegata ad una catena che entrava in un foro al muro.


Dall’altra parte, un impianto elettrogeno capace di produrre energia elettrica e incamerarla nelle capaci batterie centrali.


Così, per rispettare il nuovo piano energetico varato dal movimento pro ecologia erano stati adeguati uffici d’ogni città.


Niente più sprechi, anzi, l’energia in esubero, illuminate le stanze, riscaldati o condizionali gli uffici e gli ambienti, veniva venduta all’esterno.


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Nella grande stanza dei libri, sbuffavano i capi dell’Istituto.

Supplivano quel formidabile ciclista dell’addetto ai libri, impegnato a smaltire un brutto ma provvidenziale ‘esaurimento tendineo’ provocato da certi pettegolezzi provvidenziali.


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