Faustino e la spina
Era quasi l’ora del tramonto.
Il cielo era stato sereno per quasi tutto il giorno, ma adesso
nuvole enormi stavano ammassandosi a oriente, spinte da un forte scirocco umido
e carico di sabbia del deserto.
Si avvicinava un forte temporale.
La città si preparava alla sera ed alle ore della notte.
Sembrava una giornata ordinaria, d’una primavera tiepida e piena
di rondini.
La gente si era riversata nelle strade, prima, ma adesso tornava
alle attività consuete.
Succedeva così quando c’era una esecuzione sulla collina.
§§
§
Un gruppo di persone, una donna giovane e qualche altro parente,
forse, guardavano in su intorno al
condannato.
Gemeva e aveva sete.
Era legato e inchiodato a due pali di legno.
Ad un tratto alzò la testa.
In quel dolore grande, in quel bruciore che contrassegna le ore
dopo un grande disinganno, in quel fastidio fisico per le frustate e
l’umiliazione, una cosa più d’ogni altra lo torturava.
§§
§
Sulla fronte, che tante volte la mamma gli aveva accarezzato e
che lui stesso aveva asciugato dal sudore, d’estate, sentiva qualcosa che più
d’ogni altra lo pungeva.
Una corona di spine gli circondava i capelli lunghi e castani,
ramati.
Una spina gli trafiggeva la fronte, accanto alla tempia destra.
E aveva sete.
§§
§
Tanta sete, e chissà perché.
A volte si ha sete e fame solo perché si aspetta che qualcuno
venga a darci qualcosa.
A parlarci.
Chinò il capo.
Aspettava una fine che aveva previsto.
Il suo lavoro stava per culminare.
§
Quando, mentre guardava in basso i soldati giocare a dadi e
qualcun altro disperarsi per lui, vide con la parte superiore dell’occhio
qualcosa muoversi sopra la fronte.
Un passero si era fermato leggerissimo sopra la corona di spine.
Sorrise, il dannato.
§
Ad un tratto il volatile afferrò con il becco la spina che
tormentava più d’ogni altra cosa il giovane legato alla croce e cominciò a
tirare, finché il legno si staccò dalla pelle ed una goccia di sangue gli
colorò il petto…
“Faustino … ti chiami Faustino …”
“Si…”
cinguettò il passerotto …
“Da oggi sarai un pettirosso, in ricordo di me…”
§
“Si… ma ci rivedremo …”
“Certo … tu potrai vedermi sempre, Fausto …”
§§
§
In quel momento il giovane non si sentì più abbandonato da
nessuno e si riconciliò con il Padre.
Gridò.
Scoppiò un tuono, preceduto da un bagliore e la donna sotto la
croce gridò il suo nome …
Gennaro di Jacovo
La stanza di Romeo
E altri racconti …
Nel giardino di Tito Lucrezio Caro
Argos
& Ruphus
Editori
Ubicumque ero tecum
Alpha
“Vola, Romeo…!”
Lo aveva visto nella sua stanza appollaiato sopra
gli sci.
I Rossignol.
Era rimasto lì un paio di giorni, dopo essere uscito
dalla gabbietta celeste.
Qui era stato ospitato dalla sera del 25 di
febbraio, domenica.
Erano usciti per una breve passeggiata in centro,
quella sera.
Arrivati all’ingresso del garage del grande palazzone
nuovo, prima del bar, avevano notato un piccione giovane fermo all’interno del
vano.
Era l’imbrunire ed era strano questo fatto.
Che fare?
Gennaro si avvicinò, ma il volatile scese la rampa.
Era difficile prenderlo.
Aveva paura di fargli male.
Infine lo circondò con le mani,
Un’ala era ferita.
Sanguinava.
“Anna, dobbiamo portarlo a casa…”
“Certo…”
Velocemente tornarono verso la loro abitazione.
Entrarono in giardino.
Il piccione fu sistemato in una gabbietta piccola,
così da favorire, con l’immobilità, la guarigione dell’ala.
§§§
§
Gennaro sistemò dei cereali destinati a Xanta, la
colomba di casa, ed una vaschetta d’acqua negli appositi contenitori della
gabbia.
§
La casa di Romeo era pronta.
Il colombo se ne stava buono.
Sembrava che la ferita fosse dovuta ad un colpo
ricevuto, forse anche ad un colpo di arma ad aria compressa.
Le penne erano perforate e c’era una emorragia in
atto che macchiava la regolare copertura grigio nera all’altezza della delicata
giuntura alare.
Avrebbe bevuto e mangiato?
Sarebbe stato in grado di volare dopo i giorni
necessari alla guarigione?
§§
§
Il piccione tubava, fermo, come se capisse la
delicatezza della situazione.
Chiuso nella stanza, nel suo giardino, Romeo
affrontò la sua prima notte.
La mattina successiva era tranquillo.
La ferita non sanguinava.
La sera precedente Gennaro l’aveva disinfettata
spruzzando un liquido adatto sulla ferita e provocando l’irritazione del
piccione.
L’operazione, semplice ed efficace.
Era stata evidentemente opportuna ed utile.
§§§
§
Faustino e la spina
Era quasi l’ora del tramonto.
Il cielo era stato sereno per quasi tutto il giorno, ma adesso nuvole enormi stavano ammassandosi a oriente, spinte da un forte scirocco umido e carico di sabbia del deserto.
Si preparava un forte temporale.
La città si preparava alla sera ed alle ore della notte.
Sembrava una giornata ordinaria, d’una primavera tiepida e piena di rondini.
La gente si era riversata nelle strade, prima, ma adesso tornava alle attività consuete.
Succedeva così quando c’era una esecuzione sulla collina.
§§
§
Un gruppo di persone, una donna giovane e qualche altro parente, forse, guardavano in su intorno al condannato.
Gemeva e aveva sete.
Era legato e inchiodato a due pali di legno.
Ad un tratto alzò la testa.
In quel dolore grande, in quel bruciore che contrassegna le ore dopo un grande disinganno, in quel fastidio fisico per le frustate e l’umiliazione, una cosa più d’ogni altra lo torturava.
§§
§
Sulla fronte, che tante volte la mamma gli aveva accarezzato e che lui stesso aveva asciugato dal sudore, d’estate, sentiva qualcosa che più d’ogni altra lo pungeva.
Una corona di spine gli circondava i capelli lunghi e castani, ramati.
Una spina gli trafiggeva la fronte, accanto alla tempia destra.
E aveva sete.
§§
§
Tanta sete, e chissà perché.
A volte si ha sete e fame solo perché si aspetta che qualcuno venga a darci qualcosa.
A parlarci.
Chinò il capo.
Aspettava una fine che aveva previsto.
Il suo lavoro stava per culminare.
§
Quando, mentre guardava in basso i soldati giocare a dadi e qualcun altro disperarsi per lui, vide con la parte superiore dell’occhio qualcosa muoversi sopra la fronte.
Un passero si era fermato leggerissimo sopra la corona di spine.
Sorrise, il dannato.
§
Ad un tratto il volatile afferrò con il becco la spina che tormentava più d’ogni altra cosa il giovane legato alla croce e cominciò a tirare, finché il legno si staccò dalla pelle ed una goccia di sangue gli colorò il petto…
“Faustino … ti chiami Faustino …”
“Si…”
cinguettò il passerotto …
“Da oggi sarai un pettirosso, in ricordo di me…”
§
“Si… ma ci rivedremo …”
“Certo … tu potrai vedermi sempre, Fausto …”
§§
§
In quel momento il giovane non si sentì più abbandonato da nessuno e si riconciliò con il Padre.
Gridò.
Scoppiò un tuono, preceduto da un bagliore e la donna sotto la croce gridò il suo nome …
§§
§
Poi si sentì il frullare delle ali del pettirosso che
accompagnava il giovane nel Suo Regno.
§
§§§
… altri racconti …
§
1. gàmma ……………………..… Sedici
2. dèlta ………………………….. Il fratello
3.
èpsilon
………………………. Libri
4.
zèta
………………………….. Alberi e libri
5.
èta …………………………… La bandiera
6.
theta ………. La mamma dei piccioni
7.
Iòta ……….
Il cancello
8.
kappa ……..
La formica
9.
làmbda ……
Il corridoio dei segreti
10.
mì ………… L’assemblea
11.
nì …………. Il vocabolario
12.
ksì …….…. Il computer
13.
òmikron …. La gabbia dei gatti
14.
pì ………... Il Tavolo vale
15.
rò ………… Il miglio perde
16.
sìgma ……. La fondazione
17.
tàu ……….. La Legione
18.
ypsilon …... Il piedicomio
19.
phì ……….. Lazzaro
§
20.
khì ……….. La ciclabile §
21.
psì ……….. Il volontario §
22.
omèga ……. Gli Utenti
§
§§§
§
§§§
§
gàmma
§
Sedici
La sveglia
suonò come al solito alle sei e mezzo.
Si alzò di
scatto distendendosi a cuneo e inarcando la schiena.
Poi la abbassò
roteando le gambe a bicicletta.
Un poco di
movimento avrebbe svegliato i muscoli forti e scattanti, per adesso ancora
abbacchiati.
Si infilò poi i
pantaloni, dopo dieci minuti, e si rinfrescò.
Si vestì come
al solito.
Jeans e felpa.
Scese.
Sua madre era
sveglia ed aveva preparato la colazione.
Latte e caffè:
Croissons alla mela.
« Mamma
... oggi resto con gli amici ... stasera abbiamo la cena dei cento giorni …”
“Allora torni
tardi, Franco …”
“Si … ma non ti
preoccupare … domani sarò in forma come al solito …”
§
“Non stancarti
troppo … ormai la scuola è quasi finita.
Dopo gli esami,
a Luglio, voglio comprare un forno a microonde nuovo, per le tue colazioni del
mattino …”
§
“Ora vado …
saluta pà … ciao …”
§
Franco salutò,
baciò la mamma abbassandosi.
Era assai alto.
Uscì di casa.
Una giornata
fresca ma piena di un sole frizzante e mattutino, lucente.
Si vedeva
l’arco della costa verso Talamone ed il castello di pietra dorata.
Fra poco
sarebbero arrivate le rondini …
§§§
Corse alla
macchina e partì.
In breve fu in
città.
Parcheggiò proprio
accanto al grosso fabbricato della scuola.
Sul muretto di
fronte le tortore stavano ancora mangiando i biscotti che il professore della
biblioteca metteva per loro.
Volavano
aggraziate, timide e schive.
Una tortorella
fece cadere un frammento di craker vicino alla macchina appena parcheggiata.
§
Franco lo
raccolse e lo gettò al volatile, che lo afferrò col becco e volò via, dopo
essersi girato verso il giovane, quasi a ringraziare.
§
La mattinata
trascorse lenta.
Ma giunse l’ora
dell’uscita.
Fu invitato a
pranzo da una compagna di classe.
Martina era una
ragazza sportiva.
Era anche
brava, studiosa.
Le piacevano le
lingue, i viaggi.
Giocava a
pallavolo, era una campionessa.
Il pomeriggio trascorse fra ricerche da svolgere, compiti
e visite ad altri compagni di scuola.
La sera giunse
con una gran voglia di vedersi tutti insieme per la cena di fine anno.
Al ristorante
c’erano tutti.
C’era anche
l’insegnante, con la collega.
I ricordi di
cinque anni sarebbero stati tutti rivisti come vecchi, cari film.
§
“Andiamo … su …
è tardi …”
Partirono verso
il posto convenuto.
“Ma siamo quasi
a secco … devo fare benzina …”
§
Si diresse
verso il grande distributore automatico all’ingresso della città.
Scese dall’auto
e preparò venti euro.
Ma un leggero
movimento brusco fece cadere la banconota che una tortorelle afferrò e portò
via.
La fece cadere
in un fosso, nell’acqua.
§
Per un caso
assai strano nessuno passò, e Franco restò a lungo senza poter avvertire gli
amici, senza benzina e senza il cellulare.
Dovette dormire
nell’auto, e la mattina dopo, con la luce, recuperò il ventone e mise un po’ di
carburante.
§
Mancavano
novantanove giorni alla fine dell’anno scolastico e per colpa d’una tortorelle
aveva perso la cena più importante della sua vita scolastica.
§§§
§
Libri
Erano disposti
intorno a lui, in grigi scaffali di metallo, con il cartellino della
collocazione bene in vista sul dorso.
Silenziosi,
cheti, educati.
Stavano sempre
fermi, finché qualcuno non li avesse presi ed estratti dalla loro naturale
collocazione.
Naturale dopo
che gli era stata convenzionalmente imposta.
In realtà la
loro collocazione davvero ma prorpio davvero naturalmente accettabile era sopra
il tavolo o il comodino o un altro mobile qualunque d’una casa.
Ma loro, in
casa non li avevano voluti.
Chi nuovo
appena sfornato, chi cacciato erano tutti finiti lì.
Schedati e
collocati, catalogati.
Ed ora se ne
stavano muti, buoni, e aspettavano, senza dirlo, che qualcuno li prendesse,
chiedesse di loro, li sfogliasse, li leggesse o semplicemente li portasse un
po’ in giro, nello zaino colorato dei ragazzi o in una borsa di donna, fra lo
specchietto e le chiavi di casa, o in quella seriosa e zeppa di carte da uomo.
§§§
Andare a casa.
Per la prima
volta.
O ritornarci e
vedere se qualcosa fosse cambiato.
Le care cose
sopra i mobili, la disposizione degli scaffali, i computer, i gatti e il cane.
Ma il più delle
volte nessuno li prendeva.
§
C’era un tizio,
con loro.
Era il loro
educatore personale, e lo chiamavano Amico.
Li prendeva, a
volte, e sembrava loro, questo gesto, un gesto fraterno, un atto delicato di
amicizia.
Li leggeva,
anche.
E questo faceva
loro un effetto assai speciale.
Pareva che
qualcuno, probabilmente la persona che lo aveva immaginato o scritto o fatto
scrivere, parlasse dentro il messaggio con parole mute, senza suono ma
comprensibili, e che queste fossero ascoltate, sentite, quasi, mentre erano
lette per il tramite della carta e dell’inchiostro.
§
Era sentirsi
realizzati, quel gesto di comunicazione.
Ma anche
nell’attesa che avvenisse questo, si compiva la gioia, forse in modo meno
visibile, ma comunque pieno di una particolare intensità
§
Sedeva al
centro della stanza, verso gli scaffali della narrativa, l’Amico.
Scriveva, in
genere, o sistemava libri e carte.
Riviste,
quotidiani, numeri delle Gazzette contenenti le Leggi della Repubblica.
§§§
La stanza era
in penombra.
Le finestre non
offrivano nessuna particolare veduta.
Il muro grigio
degli uffici era posto proprio di fronte, come una promessa di tedio.
Si vedevano
dalle finestre prospicienti camminare i funzionari con un foglio in mano, da
soli o a coppia, i docenti, a volte i dirigenti, sempre intenti a spiegare o
chiarire qualcosa.
Si vedevano
alunni in cerca di giustificazioni o desiderosi di essere ammessi dopo un
ritardo, d’essere autorizzati ad uscire in anticipo.
L’Amico ormai
era diventato come un vecchio falegname che, partito alla ricerca del figlio,
testone di legno, fosse stato ingoiato da un pesce enorme, e dentro la pancia
di questo avesse trovato il necessario per far luce, per scrivere, per
sopravvivere.
Nella pancia
d’un “mostro” provvidenziale aveva trovato quel che la vita non gli aveva mai
offerto.
§
Non che la
situazione fosse delle migliori.
Ma bisognava
pur vivere.
§§§
La
rassegnazione e l’accettazione rendono buono tutto e l’appetito, si sa, è il
miglior condimento.
Proprio mentre
stava scrivendo al computer, l’Amico avvertì con la parte superiore dell’occhio
un movimento, alzò la testa e vide un uccellino.
Chissà da
quanto tempo era rimasto chiuso nella grande stanza piena di libri.
Si alzò a andò
alla finestra.
Era un
pettirosso.
Il vetro gli
impediva di uscire.
§
L’Amico dei
Libri allora fece una cosa che pensava succedesse solo nelle fiabe.
Mise le mani,
aperte, a gabbietta, come fossero due alberelli che si chiudessero, e, senza
danneggiare la mirabile creatura, portò il pettirosso verso il cielo aperto,
oltre la finestra, che nel frattempo
aveva aperto.
§§§
Il pettirosso
bibliotecario volò in alto, elegante e soffice, un po’ insonnolito.
Si sa che la
lettura, spesso, concilia il sonno e che il sonno porta consiglio.
§
§§§
§§§
§
èpsilon
§
Il fratello
Non lo avrebbe
mai immaginato e poi, ormai si era abituato a quella vita solitaria, di re
della casa.
Un re amico di
tutti.
Allegro,
educato, ma anche irruente, a volte, allegro.
Passava le
giornate come se fosse sempre festa.
Festa grande.
Ma senza
stravizi, senza eccessi.
Era amico di
tutti e tutti gli erano amici.
Erano tutti
invitati alla sua festa.
Ogni giorno.
§§§
Un pomeriggio
tornava dai giochi.
Era settembre,
quasi l’ora del tramonto, ma c’era ancora luce e ce ne sarebbe stata per un
paio d’ore ancora.
Giunse a casa.
Gli dissero che
era arrivata da poco.
La sorellina.
In breve alle
escursioni ed alle scorribande con gli amici sostituì le lunghe ore passate
accanto alla culla di legno.
Nella cucina si
svolgeva gran parte dell’attività domestica.
§
C’era il grande
camino e due finestre alte, una stufa, le fornacelle dove si cucinava prima
accendendo il fuoco, poi con il gas.
Qui si studiava
anche, d’inverno, col grande fuoco d r’ cppon dlla cmmnera, c r kttur k valliva
e l cepp k schjppttavn…
§§§
§
I gatti
sonnecchiavano e ronfavano.
A poco a poco
il piccolo re divenne un re di casa, non uscì quasi più.
Girava per la
casa, spesso, quando la sorellina dormiva, ritrovando tutti gli oggetti dei
parenti partiti.
Conosceva ogni
cosa.
I vestiti, gli
attrezzi sportivi, la forgia per fondere i metalli, le vecchie cose abbandonate
e care della famiglia.
§
La casa divenne
una specie di museo vivente, una biblioteca in attesa che qualcuno ritornasse a
visitarla, a farla rivivere.
§§§
La sorellina
cresceva, e lui ormai era stato sistemato in collegio.
Aveva vinto una
borsa di studio.
§
Questo fatto
aveva dato una impronta decisamente diversa alla sua vita.
Ormai si era
deciso a vivere come in una dimensione virtuale e virtuosa.
Un giorno
sarebbe tornato ad essere il re delle morge e delle tane, della Rocca e della
Coperchiata, d r’Vallon d Castllucc, il giovane “figl d r’ Scrtarj”.
Con la sua
bicicletta avrebbe ancora percorso e solcato le strade del suo paese.
§§
Ma quel giorno
non sarebbe tornato, perché la sua famiglia si trasferì in Toscana, quando lui
aveva diciotto anni.
Cercò
sull’atlante il nome del nuovo paese.
Quei posti gli
parevano arcani.
Bellissimi.
Ma non
dimenticò mai il suo Paese, la Grande Casa e i gatti.
Il fiume e i
boschi.
§
Nel nuovo paese
non c’era la sua migliore Amica: la Neve.
C’era il mare,
le barche e le navi.
Il tempo passò
e i due fratelli restarono con la mamma.
Poi la sorella
si iscrisse all’Università, a Siena.
Così lui si
accorse che erano sparite tutte quelle cose che avevano determinato e forzato
le sue scelte, condizionato la sua vita, indirizzandola imprevedibilmente, ed
era rimasto solo lui.
§
Forse che tutto
si era svolto come in una dimensione immaginaria, astratta e virtuale?
Era davvero
esistito un paese sulle rocce con un piccolo
fiume ed una famiglia così piena di fascino da fargli dimenticare tutto
il mondo?
§
L’avrebbe
cercata per sempre, ancora, eiV aiwna ...
§§§
§
§§§
zèta
§§§
alberi e libri
Soffiava un vento
fresco e la valle dorata era tutta mossa come un grande mare di erba e rami.
Ramon oscillava
con il suo fusto alto e possente.
Era un forte
ontano, nel Cànada lontano, e su di lui si posavano i pettirossi, le gazze, le
aquile dalla testa bianca.
Sotto di lui
passavano castori sempre attenti a qualche lavoro di consolidamento idraulico e
lontre, sulla sua corteccia si grattavano i grandi, maestosi gritzly.
Un lago azzurro
in fondo alla valle ospitava salmoni e lucci, accoglieva lontre e castori
solerti.
Una calma
silenziosa avvolgeva la valle verde e popolosa.
§
Un giorno Ramòn
sentì qualcosa di strano.
Un rumore sordo
che si avvicinava sempre più e faceva fuggire tutti quegli Animali che mai
avevano avuto tanta strana paura, davanti a nulla, e ora arretravano al
cospetto di un suono così inascoltato e misterioso.
Passarono alcune
settimane.
Poi al suo tronco
si avvicinò una bestia goffa e rossa.
Sbuffava e
urlava, con quel suono sentito prima e moltiplicato ora per mille.
§
La bestia lo
abbrancò, lo strinse quasi alla base del tronco ed una lama iniziò a roderlo, a
tagliarlo, fino a quando Ramòn non cadde con un urlo lungo e straziante,
schiacciando la bestia rossa.
Era caduto sopra
il suo assassino, per un suo errore o per volere del fato.
§
Passarono diversi
giorni e Ramòn si sentiva ancora vivo.
Solo che non
vedeva più il suo lago e l’aquila non si posava più sulla sua chioma.
I pettirossi non
lo abbandonavano.
Non si sentiva
abbandonato.
Ma gli mancava il
vento, l’aria, il cielo ed il suo lago sereno, azzurro, a tratti grigio o blue.
Poi un mattino
tornarono le bestie rosse di ferro e lo strinsero, lo tagliarono in mille
pezzii.
Fu imballato e
sistemato su enormi rimorchi, poi portato al lago e gettato nell’acqua.
§
“Ramòn …”
Si girò piano e
vide un grosso castoro nuotargli accanto…
“Non sapevo che
tu potessi muoverti … Ramòn …”
§
Lentamente, a
pezzi l’albero avanzava spinto dal vento.
Provava una nuova
sensazione, come di una persona sola che fosse divenuta mille, o forse più.
Avvertiva e
sentiva con tutti i suoi frammenti, vedeva e ascoltava una realtà che si era
moltiplicata.
Cosa era mai
successo?
La morte che gli
avevano dato si trasformava in mille vite.
§
Non era più il
rifugio del pettirosso e della lontra, dell’aquila e della gazza.
Era un gruppo
compatto di grossi tavoloni che si dirigeva verso l’emissario del lago.
Giunse all’imbuto
e si diresse avanti, lungo il grande fiume.
§
Sulle sponde
vedeva tanti Ramòn, uguali a come era lui prima.
Lo guardavano
stupiti, quasi non lo riconoscevano.
Non poteva fare
altro che osservarli, pieni di vento e di azzurro, mentre ora lui era solo
frammenti di albero nel fiume.
§
Passarono i
giorni e giunse in un tratto del fiume che si allargava, pieno d’altri tronchi
e tavoloni.
Si confuse con
altri colleghi, conobbe gente nuova, ma restava uno, pur in tanta complessità.
§
“Scusa …mi daresti
una mano? …”
“Certo … tu chi
sei?”
“Sono Ramòna … e
tu?”
“… Ecco … io sono
Ramòn …”
§
Fu così che si
conobbero, Ramòna e Ramòn, due pezzi d’albero capaci di aiutarsi, di darsi una
mano anche se le mani non le avevano più.
Due alberi senza
rami né foglie, a dire il vero anche senza voglie.
Si tennero
vicini, nell’acqua immobile della rada, fino a quando non li arpionarono e non
li sistemarono su un grosso camion giallo.
§
“I due avevano
deciso di stare insieme. E quello fu in un certo senso il loro viaggio di nozze
… o viaggio di cozze, visto che erano stati in ammollo per mesi.
Il loro legno era
sodo e vigoroso.
Durante il
viaggio si giurarono di rimanere insieme sempre.
Ma ormai non
avevano radici, non erano alberi con una dimora stabile.
Niente di peggio,
per un albero, che essere fatto a pezzi.
§
Dopo un lungo
viaggio giunsero in un posto ampio e assolato. Rumoroso.
Furono presi
tutti e sistemati all’ingresso d’un enorme capannone.
Grosse bestie
rosse uguali a quella che li aveva tagliati e separati dalle radici li
afferravano e li portavano dentro il capannone.
Qui venivano
presi uno per uno e tagliati in tavole regolari.
I frammenti che
cadevano a terra erano ammucchiati in un angolo e caricati su altri camion.
Ramòna e Ramòn,
sistemati e ben ridimensionati in altri pezzi, furono caricati su un camion blu
e portati lontano.
Un ontano che se
ne va lontano …
§
Giunsero che era
notte.
La mattina dopo
si ritrovarono in un grande piazzale .
Si sentiva sempre
quel rumore assordante.
Animaletti
pallidi con guantoni e occhiali, con orecchie tappate, li afferravano con le
loro bestie rosse e gialle, più piccole delle prime.
Dopo qualche
tempo vennero portati dentro.
Di nuovo li
fecero a pezzi e li unirono poi formando organismi più complessi.
Li verniciarono e
li imballarono.
Ramona così venne
ad essere separata da Ramòn.
§
Ancora un lungo
viaggio la attendeva.
Infine giunse
davanti ad un fabbricato ampio.
Venne portata in
una sala ampia, con quattro grandi vetrate ed un muretto grigio con un
mandarino da guardare ogni tanto.
La misero accanto
ad un disegno raffigurante un cavallo.
Alla sua
sinistra, una grande bandiera a tre colori.
§
Era sola.
Era uno scaffale
di bilioteca.
Vuoto.
§
Entrò ad un
tratto una persona trasandata con un altro tizio
Messo quasi
peggio.
Avevano i capelli
grigi e parlavano con grande seriosità, quasi con sussiego.
“Qui mettevano la
Tveccàni … cevto …”
Diceva uno.
L’altro annuiva.
Era quasi
mezzogiorno, quando la goffa porta di metallo si spalancò.
Entrarono un paio
di persone che scaricarono grossi pacchi.
Poi i pacchi
furono aperti e i tizi scaffalarono i grandi volumi nuovi e odorosi di stampa.
Una enciclopedia
tanto ingombrante e pesante quanto bella da vedere.
Marrone, con le
scritte oro in brossura.
§
Chiusero poi la
portaccia e Ramòna restò sola sotto il peso grande dei libroni.
§
Ma era forte e
reggeva molto bene.
§
Peccato fosse
così sola, e il ricordo del suo Ramòn non sempre bastava a tenerle compagnìa.
Gli alberi sanno
essere soli, restare fermi, eppure si muovono al vento e possono guardare molto
lontano …
§
“Ramòn …”
Scappò detto a
Ramòna …
§ “Dimmi …”
La voce veniva da
uno dei volumi, il XXIX REH ROMANI della Grande Enciclopedia Treccàni.
“Zitta, Ramòna,
per carità, o mi sistemano in qualche altre stanza …Mi hanno trasformato in
carta, da quel mucchio di trucioli che ero, e sono capitato ancora con te …
sarài il mio sostegno, Ramòna …”
§
“Si … Ramòn …
saremo gli alberi più istruiti dei dintorni …”
§
In quel momento
nel piccolo spazio verde davanti alla biblioteca di Ramòn e della sua compagna
si sentì un usignolo che cantava una canzone bellissima, intrisa d’una
struggente e allegra malinconica, sorridente felicità.
§
Ramona e Ramòn
strinsero pagine e legno e fecero di quella biblioteca ospitale il loro nido
ritrovato.
“Si … metteremo
qui le nostre radici …”
§
Disse Ramòn e
frullò le pagine profumate di stampa come fossero rami fronzuti e foglie
leggere e fruscianti …
§§§
§§
§
§§§
èta
§§§
§
la bandiera
§
Quando
sollevava gli occhi dal tavolo avana dove brillavano le scintille del monitor
acceso vedeva una parete di libri di narrativa.
Era il campo
suo.
Il resto nella
grossa stanza era composto da volumi di matematica, economia, scienza e varia
cultura.
Molti di quei
libri per lui erano a dire il vero indecifrabili, ma lui li sentiva come
qualcosa di suo: condividevano la sua sorte, e quando si sarebbero separati,
sarebbe stato per non rivedersi più.
§
Davanti alle
finestre strette e alte ogni tanto arrivavano dei pettirossi e qualche gazza
ciarliera e schiamazzante.
Più in alto,
oltre gli scaffali metallici, alzando lo sguardo si scorgeva una vecchia
bandiera, logora e sgualcita.
Uno stemma
dell’Italia dell’800.
§
I colori del
drappo riempivano l’ampia parete, come quelli d’un tramonto avana e rosso su
prati verdi.
§
Aveva custodito
molti cimeli, fin da piccolo.
Nella casa
dello zio aveva visto oggetti d’ogni genere, alcuni gloriosi, appartenuti a
gente del secolo precedente, ed aveva provveduto in genere a custodirli con
molta riverenza ed amore.
§
Si era avvezzo
a poco a poco a considerarsi quasi una specie di portabandiera, un semplice
punto di riferimento nella baruffa didattica della scuola.
Non che volesse
condurre qualche scontro cruento e polemico, ma certo avvertiva che i
comandanti precedenti si erano quasi dimenticati di quell’ingombrante e pesante
cornice dorata con la bandiera ben esposta.
§
Da quando si
trovava in quella scuola, in quella biblioteca, non c’era stata pace.
Aveva svolto
diverse mansioni, anche negli uffici.
Ora era solo a
gestire i prestiti dei libri, le ricerche sui testi e sul computer.
§
Doveva fare
attenzione a cose per lui poco congeniali.
Prestare libri,
sollecitare la restituzione, andare incontro alla scarsa puntualità di alcuni
utenti.
Dire che aveva
sempre evitato di prestare libri.
Preferiva
regalarli.
Era tutta greca
l’arte del dono e assai banale il concetto del prestito …
§
Ma di quella
bandiera si sentiva contento.
Non sapeva
nemmeno perché.
§
“Lavorare
in biblioteca è assurdo … l’orario è pesante … si mettono a posto libri vecchi
e inutili … “
La professoressa gli aveva detto così, un
giorno.
Ne era rimasto
colpito di striscio, se non offeso, perché ad offendersi spesso dovrebbe essere
chi stradice.
§
Si trattava
d’una insegnante che aveva conosciuto la notte di Natale.nella chiesetta
dell’Ospedale della Misericordia, costruito grazie a Benedetto Pierini.
Il padre era
ricoverato, e lui lo aveva assistito da volontario in qualche semplice
esigenza.
E adesso quella
tizia gli dava del catorcio.
Non era sua
abitudine offendersi, ma comunque certamente nemmeno poteva dirsi soddisfatto.
§
Ma perché
avevano confinato la matematica ad un ridotto uso astratto del
pallottoliere dei conti e dei numeri più astrusi?
Perché le
avevano tolto quell’ arte poetica e letteraria che ebbe ai tempi di Parmenide,
di Eraclito e Pitagora?
§
In ogni caso, un
giorno vide questa ‘’persona’’ entrare nella sua stanza dei libri e guardare la
bandiera con la curiosità d’una rigattiera.
Capì che si
progettava di portarla via.
Ma quasi sperò
che non accadesse.
§
Già era
successo così per un libro, che lui non aveva mai neppure visto, su cui si era
svolta una conferenza, nell’aula magna.
Non era andato,
perché era in orario di servizio.
Ma era andata
sua moglie, che aveva studiato con il professore referente.
Un testo di
vecchia data, presentato anche a quella conferenza, e mai fatto a lui vedere,
era stato poi messo, a quanto poi aveva capito, nella cassaforte della scuola.
Un libro
trattato con ogni riguardo, come dovrebbero essere trattati tutti,
contrariamente agli altri libri, scaffalati e tutto sommato trascurati.
I libri sono
fatti per essere letti, ma nelle nostre care scuole non sono nemmeno divani o poltrone.
Sono meno che
sgabelli…
§
“Ma senti …
aveva pensato … vai a vedere che adesso la biblioteca ha della dipendenze,
negli uffici più segreti della scuola.
E’ come un
tempo, allora.
La biblioteca è
addirittura il centro, e non la periferia della Scuola … e del resto è intorno
al cuore costituito dalla sala dei manoscritti che si è sviluppata l’attività
didattica, complementare e accessoria, r non viceversa …
Sono nate prima
le biblioteche, gli archivi, e poi i laboratori per curare i testi e le scuole,
come sede di lettura, di ‘’lectio’’.
Ma
tutto questo era stato come dimenticato e gli accessori, aule, uffici e
servizi, con laboratori e palestre, erano stati trasformati in sedi
principali.”
§
Passarono i
giorni e dovette parlare con diversa gente negli uffici per sistemare una parte
dei libri.
Inventariare e
catalogare, collocare.
E spolverare.
Diede una
sistemata a tutti i volumi della grande stanza.
Riportò anche a
casa una certa quantità di volumi che aveva comprato e che usava anche per aggiornamento
personale.
Erano libri in
greco, in latino, di varia letteratura, di storia e di filosofia.
Alcuni gli
erano serviti anche per colmare le carenze d’una biblioteca evidentemente
troppo tecnica.
§
Aveva dovuto
portarli via perché confondevano il lavoro di catalogazione, come gli era stato
fatto notare.
Così un giorno
li aveva presi, insieme ad altri oggetti che aveva usato per l’ordinario lavoro
suo, e li aveva portati a casa di sua moglie, dove abitava.
In biblioteca,
in barba a ogni norma, stavano per essere addirittura catalogati, senza che
appartenessero alla scuola e quindi senza che fossero stati prima inventariati.
I libri nuovi,
che comprava nei suoi giri nelle librerie, li aveva così infine donati alla biblioteca del
Misericordia.
I pazienti, i
degenti, avrebbero avuto molto da leggere, grazie a questo suo gesto.
Qualche anno
prima era stato proprio lui ad organizzare la biblioteca dei pazienti nella
biblioteca del reparto attiguo a quello di neurologia, dove aveva avuto
mansioni di volontariato ospedaliero.
Non era forse
‘’ancora’’ iscritto alla facoltà di psicologia a Roma?
Non aveva avuto
il tempo per laurearsi, ma ne aveva fatto di esperienza, diciamo così,
indiretta.
Non conosceva
forse Prometeo il fuoco e le aquile forse meglio di Zeus, re degli dèi, e le catene e gli uomini meglio di Efesto, dio del fuoco e della
metallurgia?
Ne conosceva le
conseguenze.
Dottori
si diventa, pazienti si nasce.
§
Tornato in
biblioteca, dopo il suo colloquio negli uffici, notò una mattina
che era stata tolta la bandiera.
§
Senza che nessuno gli avesse
detto nulla.
E proprio mentre lui era a
colloquio con i coordinatori delle attività scolastiche.
§
Nella stanza
dei libri era rimasto il disegno d’un cavallo.
La testa
dell’animale si combinava benissimo col resto della elegante enciclopedia
Treccani con tutti i suoi aggiornamenti, così da sembrare una sola cosa con il
resto della biblioteca, visto che dal cavallo della Battigalli si snodava la
sequela dei libri, a partire dal viaggiatore di Italo.
§§§
§
Era una specie
di cavallo di Odisseo, contenente migliaia di Autori esperti, saggi, forti
potenti e … pazienti.
Adesso
risultava spostata, la bandiera, su un’altra collina adiacente, accanto alla
cassaforte del libro antico che lui nemmeno conosceva, ed ora la biblioteca era
affidata alla testa fiera e crinuta d’ un focoso puledro, come in una fascinosa
teoria di Platone sull’Anima, composta da un Auriga e due cavalli, uno bianco e
docile, l’altro nero e indomabile …
§§§§§
§§
§
§
theta
§§§
La Mamma dei
piccioni
Dapprima
l’avevano sistemata nella Piazza del Sale, dove un tempo si raccoglieva il
prezioso additivo degli alimenti.
Poi l’avevano
spostata fuori le grosse mura di mattoni.
Mura medicee
della città antica.
Se ne stava alta
sopra un piedistallo, grande con un mantello di bronzo e stringeva a sé i
figli, per proteggerli dalla morte, dal dolore, dal male.
Intorno non c’era
quasi mai nessuno.
Prati, aiuole e
tanti piccioni,
A vederla, mi
sembrava quasi una sola grande famiglia.
Vicino,
illuminata, la sede d’un bel supermercato.
Quando mi fermai
la prima volta, posai la bici da corsa all’ingresso ed entrai, come se un
ciclista del Giro si fosse fermato per il rifornimento al sacco.
Presi tre
baghette. Pagai alla cassa ed uscii.
Sulle strisce una
signora non mi vide e mi investì con la sua Audi.
§
Si ripeteva un
rituale sgradevole e tragico.
Il muso grigio
dell’auto che si avvicinava, io che avvertivo l’inevitabilità dell’urto, il
volo senza ali ed il rumore dell’atterraggio doloroso.
Poi i tentativi
di rialzarsi, gli occhi che cercavano la bici e le scuse dell’investitore.
Non mi ero fatto
gran che.
Feci andar via le
due donne a bordo dell’auto tedesca e risposi ad un’altre signora che
probabilmente non c’era bisogno di nulla.
Ero stato
fortunato, come il 25 marzo del 2004, quando un giovane mi aveva investito con
un furgone Mercedes dopo che non aveva rispettato lo ‘stop’.
Anche allora,
dopo un volo pauroso, con l’aiuto d’una qualche buona anima me l’ero cavata con
vistosi lividi, ma senza fratture.
§
Con le tre
baghette andai verso il piccolo prato sotto le mura e gettai i pezzi di pane ai
piccioni.
Era grazie a loro
ed alle tortorelle del mio quartiere, da casa alla scuola, presso la chiesa del
Sacro Cuore, se ero ancora vivo.
Non avevo ali,
certo, ma qualcosa dovevo aver pure appreso circa l’atterraggio, che è la fase
più banale ma anche la più delicata del
volo.
§
Dall’alto del suo
piedistallo bianco, la Mamma dei piccioni guardava lontano, nel caso che
arrivasse un aereo nemico, ma peggio ancora se amico, a mitragliarci per
calcolo esatto o per tragico errore.
Per fuoco amico.
§§§
iòta
§§§
§
il cancello
§
Era tardi.
Quasi l’ora di
chiudere bottega e andare a casa.
La bottega di
Orlando era un ufficio, un ampio stanzone d’una scuola qualsiasi.
Una grande scuola
poco tempo prima, una scuola in decadenza ora.
Aveva chiesto di
lavorare in quell’ufficio come per una esigenza di mettersi in contatto con
l’istituto.
Per frequentare
insegnanti, custodi, alunni e impiegati.
Gli pareva di
vivere in india, con una società divisa in caste.
Si era accorto
presto di essersi illuso.
Senza una sede
fissa, senza neppure una sedia, privato persino di macchina da scrivere e
computer, ormai era simile a un libro, alla balìa di gente distratta, attenta
solo ai propri interessi di tavolo.
A poco a poco si
era rifornito, a prorpio spese, del necessario per il lavoro ed aveva ottenuto
un piccolo computer con cui scrivere i numerosissimi documenti occorrenti per
il suo lavoro.
Forse esagerava a
non ridurre tutto a pochi foglietti, ma gli sembrava opportuno svolgere ogni
pratica al meglio, non solo per propria serenità, ma anche per il successo dei
progetti della scuola.
E così faceva
tardi, entrava per primo e usciva per iltimo.
Le ore svolte in
eccesso si accumulavano, e così sarebbe stato per gli anni seguenti.
Qualche anno dopo
sarebbe stato in vantaggio di un anno, come gli avrebbero detto all’ufficio
Personale.
Eppure il
Dirigente non si era minimamente preoccupato mai di assicurargli che le ore gli
sarebbero state retribuite, come accadeva per tutti gli altri dipendenti.
§
Anzi, qualche
volta, dimenticandosi di lui, lo avevano chiuso dentro l’atrio antistante
l’ingresso della scuola ed aveva dovuto scavalcare un’alta ringhiera per
uscire.
Con rischi d’ogni
genere.
Così quel giorno
stava mettendo a posto le numerose cartelle sul vecchio tavolo.
Non aveva un
armadio da usare all’occorrenza.
Per i
responsabili dirigenti e direttori il suo lavoro era da svolgere al cielo aperto,
evidentemente, e chissà, forse tutto questo era didattico, terapeutico,
catastematico ed apotropaico …
Ad un tratto si
accorse che era entrato uno degli impiegati.
“Senti…”
gli dice con
grande confidenza.
“Mi hanno detto
che prima di lavorare qui eri un ottimo insegnante … come mai sei andato via
dalla tua scuola di prima?…”
§
“Che mentre
stessi lavorando un impiegato si permettesse di venirmi ad intervistare, per di
più su cose trascurabili e private di cui peraltro ogni pettegolo avrebbe
dovuto conoscere tutto, mi sorprendeva.
§
“Vedi…”
gli risposi
“Se chi ti ha
detto una cosa del genere si fosse impegnato per gli interessi comuni con lo
stesso entusiasmo con cui distribuisce complimenti non richiesti a vanvera, le
cose andrebbero meglio per tutti.
Piuttosto, ti
voglio dare un saggio sulla linguistica dedicato ai miei alunni, così ti farai
un’idea su cosa dicevo e facevo a scuola”.
§
Gli diedi Cenni
di Linguistica, dedicato al Professore Arnaldo Corrieri e ai miei Alunni del
Ginnasio.
§
Qualche anno dopo
quell’impiegato ebbe bisogno di lezioni di latino per il figliolo.
Andai a casa sua
per un paio di mesi a insegnare quella antica lingua, gratuitamente, accettando
solo un bicchiere d’acqua alla fine d’ogni doppia ora di lezione, mentre babbo
e figlio guardavano la TV e mangiavano pane e mortadella.
Infine, un giorno
mentre uscivo dalla scuola sentii l’impiegato gridare … “aspetta … aspetta
…m’hai chiuso …”
§
Era fuori dalla
scuola e parlava con un collega.
Non lo avevo
chiuso fuori, perché era rimasto ancora dentro un assistente tecnico.
Quel giorno gli
alunni erano andati a cinema, durante l’assemblea studentesca, e quindi eravamo
pochi negli uffici.
L’unico
inconveniente, in assenza fisica ma non virtuale di capi di istituto e direttori
del personale era stato causato da quell’impiegato, che molto probabilmente
invece di fare il sovrano avrebbe dovuto rendere anche a me più efficiente quel
giorno di permanenza scolastica in discipulorum atque consulum absentia.
§
Non l’ho rivisto
più, nemmeno nella biblioteca, dove ogni tanto si presentava per le sue
interviste impossibili.
Ma certamente mi
guarderò bene per il futuro dal bere acqua calda, e non gasata, a casa di quel
mio … amico.
§§§
§
§§§
kàppa
§§§
§
la Formica
§
Aprì la finestra
e l’aria fredda entrò nella grande stanza.
Il cieli era
grigio di nubi e scendeva una pioggia sottilissima.
§
Lo aspettavano
più di sei ore di lavoro.
Incontri
estemporanei, quelli della scuola dove era.
Ci si
aspetterebbe un’attività programmata, in un certo senso, per la lettura e la
ricerca.
Ma erano non
troppo numerosi i docenti che spedivano i loro alunni a prendere in prestito
libri determinati.
In genere
chiedevano testi che non erano presenti, e del resto si compravano pochissimi
libri, quasi nulla, e non si seguivano certo le indicazioni nemmeno richieste
del librologo, il bibliotecario.
§
Che parola scèma
…
Mastro libraio,
librario, acchiappanuvole, sarebbe stato meglio chiamarlo così.
Dream buster …
§
Si dava da fare,
leggeva, spolverava i libri e gli scaffali, metteva a posto la Gazzetta
Ufficiale e le poche riviste sparse che arrivavano, lì, nell’Ufficio
sgangherato dell’ultimo Ufficiale della Guarnigione del Deserto dei Torturi,
dei Tartari …
Scriveva lunghi
elenchi dei libri ancora da catalogare, libri di cultura locale, non di
narrativa.
Aveva sempre poco
amaro romanzi e racconti, aveva sempre preferito la saggistica.
Ma adesso per
dare libri in lettura gli occorrevano libri di narrativa freschi, saporiti e
possibilmente ammessi dalle regole arcaiche della scuola.
Per tutta
l’estate aveva scritto ad uno scrittore di Successo.
Scrivere ad uno
scrittore per un bibliotecario deve essere come per un nuotatore scrivere ad un
impiegato della Ferrarelle o della San Benedetto.
Aveva consumato i
polpastrelli, nella sua piccola casa al mare, durante le ferie.
Nell’inverno
aveva preso l’abitudine di girare per le librerie della città e comprare libri
utili per gli utenti.
Libri di Autori
classici, anche contemporanei.
Non freschissimi
di stampa, come certi ultimissimi geni dell’ink del link e del word atque
similia.
Goethe, Foscolo,
Morante, Calvino, e così via.
Nelle scuole si
dovrebbe leggere e scrivere, ma si rendeva conto che così non si faceva.
Nemmeno si era
capaci di consultare il catalogo e cos’ venivano in tanti a chiedere lo stesso
volume.
Così spesso era
utile averne una copia, anche non necessariamente appartenente alla scuola.
§
Il sistema si era
incrinato un bel giorno.
Era stato deciso
di connettere e collegare in rete la biblioteca con le altre della provincia.
Una operazione
semplicissima, visto che negli anni precedenti era stato sistemato tutto il
necessario per usare Internet nella biblioteca.
Tutto,
virtualmente e virtuosamente, era stato predisposto.
Tutto era stato
predisposto.
Computers, vecchi
ma efficienti, il filo di collegamento per le porte Usb, la cui sistemazione
lui stesso aveva sollecitato in Comune, catalogo dei libri pronto, da
aggiornare eventualmente con libri recentemente entrati e inventariati.
Si era iscritto
alla Associazione Documentazione Biblioteche e Archivi ed aveva installato il
CDS ISIS.
Questo
automaticamente aveva inglobato i dati dell’ ISIS30 precedente, che conteneva
le indicazioni bibliografiche immesse prima.
Era stato assai
semplice.
Eppure, sebbene
da dicembre tutto fosse pronto, non s’era fatto più nulla di nulla.
Inutile
sollecitare o chiedere.
Gli avrebbero
detto che aveva fretta, che doveva fidarsi.
E intanto, vedeva
che le cose chieste per la biblioteca, fredda e disadorna, venivano cocesse al
resto della scuola.
Così in effetti
era diventato il Principe Felice di quella scuola, tanto più povero e spoglio
quanto più si facevano ricchi e benestanti i suoi ex sudditi e amici, che
nemmeno sapevano la fonte indirettamente foriera di tanto bene.
Meglio così.
Tutta la scuola
era in realtà una biblioteca, e occorreva prima dare ogni comodità a funzionari
e custodi, poi si sarebbe passati ai docenti e quindi alla stanza della
biblioteca vera e propria.
§
Per ora, lui
aspettava.
E sgranocchiava
cracker che gettava anche a pettirossi, passerotti e tortore.
Aveva notato che
le gazze, chiassose e frettolose, dette ‘ladre’, in realtà erano quelle che
mangiavano meno.
Perché agivano
nella fretta e nel chiasso.
Quelli che hanno
fama di ladri, a volte sono più onesti dei predatori silenti e pazienti.
§
Una piccola
formica, fuori dalla finestra, aveva preso un grosso frammento di cereali e lo
stava portando in famiglia.
La vide
allontanarsi.
Laboriosa e
perfetta.
§
§§§
làmbda
§§§
§
il corridoio dei
segreti
§
Se qualcuno,
provenendo da altra parte della scuola, nel colmo della mattinata si fosse
imbattuto in uno dei tanti funzionari proprio nel centro del loro corridoio e
avesse chiesto …
“è pronto quel
documento?” …
“non lo so …”
si sarebbe
sentito rispondere.
E se invece,
giungendo dalla intirizzita stanza dei libri, avesse domandato …
ӏ possibile
incontrare la commissione?…”
“non lo so …”
gli avrebbero
detto.
§
A questo punto si
sarebbe reso conto d’essere giunto nel corridoio dei segreti.
§
Il corridoio dei
segreti era la fonte di ogni direttiva per il grande palazzo.
Qualsiasi cosa,
ogni iniziativa partiva o si autorizzava proprio lì, nel tratto dalla vetrata
opaca alla grande boccia d’acqua fresca antistante le due porte dei water.
Il water dei
funzionari e quello dirigenziale.
Mancava uno per i
poeti.
Il poeta water…
§
Spesso il
corridoio dei segreti era in soqquadro, come una strada sempre in rifacimento.
Come la … senese.
Ma era buon
segno.
Prima sistemavano
il resto del mondo, prima mettevano a posto
Anche il resto.
§
Un bel giorno
decisi di farla finita per un po’ con la carta e di presentare una bella
domanda di congedo, visto che ne avevo diritto.
§
Andai in fondo al
corridoio dei segreti, dove sapevano tutto di tutto ma non dicevano niente di
niente se non di quando in quando e chiesi di poter presentare la domanda che
mi stava a cuore.
§
Ma non ci fu
verso.
Non mi
riconobbero e non vollero dirmi chi ero.
“Non lo so … non
si sa …”
Mi dicevano.
§§§
§§§
l’assemblea
§§§
§
mì
§
Il responsabile
del coordinamento interdisciplinare e condottoriale per tutto l’istituto era
assai preoccupato.
Cosa fare?
Il clima
instaurato dai bulletti, i bulli d’appena un etto, era stato insopportabile,
fino a pochi mesi prima.
Ma ora…
Un pericolo
ancora più grande si prefiteròl all’orizzonte…
Un bullone …
completamente svitato … imperversava nei corridoi.
Era l’inizio
della fine.
Al bullismo si
sarebbe succeduto il bulloniamo, e a quel punto sarebbe intervenuto il Grande
Avvitatore, e poi lo Svitato sarebbe stato sistemato, ma a quale prezzo …
§
Occorreva
consultarsi con l’unico che avrebbe saputo cosa fare, per esperienza lunga e
genialità operativa.
Impano, come lo
chiamavano, l’ideatore della Comune Gioventù
libera & alternativa .
Lui avrebbe
spanato ogni cattiva vite male affilata, l’ avrebbe indirizzata appositamente,
rifilata ed in seguito avvitata bene.
§
Così fu
organizzato un piano programmatico propedeutico, che comprendeva qualche mese
di attività alternative alla lettura, giochi antieducativi e assemblee.
§§§
§
Nella assemblee,
invece di parlare dei temi e dei problemi inerenti la questione giovanile, come
l’uso precoce di tante cose assai nocive, l’approccio alle attività benefiche,
fu deciso di assistere, ben lontano dall’edificio scolastico, alla proiezione
di film come … Paranza criminale, Scusa se ti faccio un piacere, Per uno
schiaffo di euro, Lawrence di Rabbia, Mal Hur ed altri capolavori simili.
In tal modo,
trasformata la scuola in un folto gruppo si svitati, sarebbe stato sconfitto il
bulloniamo e spanata ogni mala vite.
§§§
§
Prese la sua
bella sportina, ma molti la chiamavano mappatella, e inforcata la bicicletta,
tenendo la torta di ricotta con una mano e maldestramente il manubrio
nell’altra, fatti pochi metri sul marciapiede cadde, mentre il carter si
accartocciava e la catena usciva dalla moltiplica.
§
Si era spanata
una vite, un bullonino …
§§§
§
§§§
nì
§§§
§
il vocabolario
§
Era elegante,
ampio, ricco di pagine bene assortite e distribuite.
Ogni parola era
ospitata adeguatamente e cortesemente sulle pagine bianche.
Aveva posto nello
scaffale accanto alla Treccani e non si assentava mai.
Solo quando
qualcuno aveva bisogno del suo aiuto poteva uscire, e per poche ore, un
vocabolario.
§§
§
Lui no.
Non lo volevano,
perché era un vocabolario serio, conteneva etimi greci e si chiamava Dario.
§
§
Una sera venne
una signora che aveva bisogno d’un dizionario di Italiano e lo vide, nello
scaffale.
Elegante,
marroncino.
“Guarda … è il
vocabolario che usavo da bambina … E’ uguale …
Posso usarlo? …”
§§§
§
“Certo … può
usarlo quanto vuole … E’ il miglior vocabolario del mondo …”.
§§§
§
Così Dario fu
utile nei Corsi serali per molto tempo e poté ascoltare le spiegazioni dei
docenti e le interrogazioni degli Alunni adulti, tanto più sapienti di quelli
giovani e spensierati.
§§§
§
§§§
ksì
§§§
§
il computer
§
Era piccolo,
grigio, con uno schermo ridotto, ma funzionava bene, era preciso.
Decise di farsi
chiamare Lazzaro, perché era stato configurato e installato il 17 dicembre, San
Lazzaro.
Era contento di
lavorare per Paride.
Quando lavoravano
insieme erano amici anche i Mirmidoni, le imbattibili Formiche di Achille di
Peleo e Teti.
§§§
§
Ma un giorno li
separarono, e forse la colpa fu di Paride, che non aveva capito che si
sarebbero vendicati, se lui avesse cambiato stanza, tornando a quella che gli
era congeniale.
Lazzaro finì in
una stanza di magazzino, lui che aveva scritto a Karol in latino, un giorno in
cui Paride, ultimato il lavoro e superate le sue sei ore di servizio, aveva
deciso di raccontargli una storia che riguardava suo Padre, la Luce e la
Madonna.
§§§
§
§§§
òmikron
§§§
§
La gabbia dei
gatti
§
Il corridoio era
in subbuglio.
Ferveva di
lavori.
Era stato deciso
di installare l’aria condizionata nelle stanzette degli uffici.
Ogni stanza
avrebbe avuto il suo bel climatizzatore, in alto, sopra la porta, con la
lucetta che si accendeva e spegneva e l’aria che variava di temperatura a
seconda degli impulsi telecomandati dalla scrivanìa corredata di moderni
computers pentium con schermo piatto, stampante fax e mouse senza fili,.
Mancava solo
ormai un fornetto a mikroonde, e poi tutto sarebbe stato perfetto.
C’era da stare
allegri davvero.
Era la biblioteca
che si arredava al meglio, iniziando dalle sue posizioni più periferiche.
§
Un giorno la
scuola tutta e non solo la sua si sarebbe ricordata che occorreva instaurare
una diversa politica della lettura e della ricerca, abbandonando le vecchie e
ormai dannose concezioni sui libri, considerati oggetti dannosi, quasi.
Quante relazioni
e quante lettere erano state spedite, e tutte persino annotate e protocollate
nell’Ufficio dei Segreti, sulla necessità di dare regole alla lettura,
all’acquisto dei libri, all’uso di Internet, selezionando solo siti utili alle
ricerche ed escludendo quelli inutilmente ludici, frivoli, dispersivi.
§
Quanti alunni
erano venuti solo perché la scuola li spediva in biblioteca perché non sapeva
effettivamente dove tenerli, ed avevano trovato, se stranieri, vocabolari e
grammatiche, possibilità di esprimersi oppure la semplice opportunità di
studiare.
Ma spesso la
scuola aveva ignorato tutto questo, limitandosi alla didattica del parcheggio,
alla non didattica dell’andate in biblioteca se non fate religione.
§§§
“Buongiorno
ragazzi… posso darvi dei libri…?”
“No … siamo qui
perché non facciamo religione …”
§
Qualche anno
prima aveva scoperto che fra i tanti motivi che possono spingere ad un uso
aberrante della biblioteca, ossia l’uso di essa come ripostiglio, dispensa
alimentare , sede per riunioni varie e stanza della sistemazione del registro,
tutte cose per fortuna del tutto sparite, eccetto sparute eccezioni, c’era
anche quella di sistemare in un luogo addetto alla lettura silenziosa gruppi di
alunni che, senza un fine mirato di ricerca bibliografica, dovevano solo
parcheggiarsi nell’attesa che finisse l’ora d’una materia che non aveva
interesse per loro.
§
Si era così
abituato a queste visite.
Aveva conosciuto
alunni ed alunne di religione musulmana, cinesi, russi, macedoni, africani del
nord, dì una terra vicina a Cartagine, a Tagaste.
Solamente quegli
Alunni, e questo era incredibile, gli avevano fatto gli auguri a Natale, a
Pasqua.
Insieme a qualche
custode.
§
E così era
arrivato Luglio.
La temperatura
era salita molto, ma non era eccessivo il fastidio del caldo estivo.
Una notte dalla
finestra della camera che dava sulla piazza davanti casa gli parve di sentire
un miagolio.
Si fece più
forte.
Carmine uscì e
vide un gattino piccolissimo, bianco e nero che si era arrampicato sotto un
grosso fuoristrada.
Proprio come
aveva fatto l’anno prima Grigio Meccanico, il bel gatto che frequentava la
casa.
Dopo vari
appostamenti decise di farsi consegnare il gatto da una vicina di casa, che
aveva telefonato informando d’aver catturato il vivace felino.
§§§
§
Era una piccola
furia.
Come tenerlo?
Carmine ebbe
un’idea.
Comprò una grossa
gabbia per tortore e piccioni e sistemò lì il gattino.
Per lui fu scelto
il nome di Alessandro, perché aveva una sfumatura di colore diverso agli occhi.
§
Andarono al mare,
nel mese di Agosto, e Alessandro crebbe, fino a quando non lo feci uscire dalla
grossa gabbia, che aveva protetto la sua esuberante natura da eventuali
reazioni degli altri gatti già adulti.
Così era stato
fatto, ma in parte minore, per Grigio.
§§
§
Così avevano
trovato e adottato il gattino, che si aggiungeva a Yle, Loi, Silva, Donatello e
Grigio Meccanico.
§§§
§
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Il tavolo vale
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Undici sedie,
dodici con la sua, tredici con la sedia del computer di biblioteca e
quattordici con la sedia del computer degli Utenti.
C’era un’altra
scrivania, utilissima perché nei casseti era possibile conservare i documenti.
Portata via.
Con un altro
tavolo da computer, assai scomodo e simile a quelli rimasti.
Portai via.
La grande stanza era arredata con sedioline da alunni e tavoli smessi dai
laboratori dei computers.
Nemmeno era stato inserito il suo nome, con le indicazioni sull’uso della biblioteca nel
sito della scuola.
E dire che lo aveva fatto presente.
I documenti della biblioteca erano praticamente una relazione di metà
anni settanta sulle carenze vistose della amministrazione dei libri, qualche
relazione scritta dal bibliotecario che lo aveva preceduto e le sue, consegnate
anche ai dirigenti e direttori della Scuola, protocollate e spedite alle altre
autorità scolastiche provinciali, regionali e nazionali.
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Paradossalmente gli avevano risposto la Presidenza del Consiglio dei
Ministri, la Presidenza della
Repubblica, il Provveditore agli Studi, la Segreteria del Vaticano, cui
aveva diffusamente parlato dei tutta la sua situazione scolastica e della
esperienza paterna, interessante soprattutto per la Chiesa, e soprattutto per
il Pontefice, Karol di Polonia.
Ma dalla sua scuola gli aveva dato risposte lacunose, quasi inesistenti.
E dire che si era offerto anche di svolgere gratuitamente il ruolo di
docente bibliotecario con specifiche deleghe per l’acquisto di libri ed altre
attività affini, sempre nell’ossequio delle direttive scolastiche.
Ma le direttive scolastiche erano di continuare la politica del
biblioblìo.
Le scuole, insomma, da troppo tempo avevano deciso di puntare su altre
forme di informazione.
E questo, insieme alla tendenza a trascurare il lato etico ed affettivo
della didattica, aveva portato alla decadenza globale di tutto il settore
scolastico.
Invano qualcuno si era opposto allo sfacelo.
Era stato emarginato, privato del contatto diretto con i giovani e i
genitori, del resto sempre pronti a concedere vizi ai figli e giustificare ogni
loro capriccio, fornendo loro tutte le scorciatoie possibili.
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Ora, le scorciatoie avvicinano le mete, ma viziano, impediscono la
visione delle cose più interessanti e obbligano a guardare solo la strada, per
evitare le buche che riempiono le cosiddette vie brevi.
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Il computer non è che uno dei figli dei libri, ma come tutti i figli non
deve dimenticare che i genitori, per quanto sia noioso e difficile, vanno
aiutati, accompagnati, mai abbandonati.
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Enea fu un figlio esemplare, con Anchise sulle spalle uscì dalla sua Ilio
distrutta e giunse in vista dell’Enotria.
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Ma tutto questo è noioso, pesante.
Per molti è meglio piantare i padri e le madri, che del resto sono
abbastanza sciocchi da dimenticare ogni offesa, e gettarsi nel nuovo, nel
rivoluzionario, che spesso poi delude.
Così nella scuole non si legge, non si scrive, si trasformano le
biblioteche in magazzini di carta poco amata.
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Invece ogni ricerca, ogni lettura viene scaricata, come un fagotto o un
fastidioso peso, ogni argomento viene praticamente trasferito da un autore alla
stampante, senza capire, senza gustare. Senza leggere e scrivere.
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Insomma, eliminata la fatica, con notevole spesa per macchinari sempre
più sofisticati, si atrofizza il cervello, e fra menti pigre fioriscono il
fiori rari della scaltra furbizia.
E pensare che anni fa la scuola è stata avvisata, ma ha pensato bene di
non ascoltare.
E così adesso deve fare i conti con il prorpio stesso fallimento, con il
teppismo, con bulletti che presto saranno bulloni.
Si è pensato bene di accusare gli onesti di pessimismo, e praticando
l’interesse proprio, le scorciatoie didattiche, allontanando i capaci e i
giusti, si è consegnata la scuola alla didattica del doppiolavorismo, dei
sotterfugi, delle macchinette segnaminuti gestite in modo opinabile, imposte
anche a persone che invece sarebbero state in grado di osservare anche troppo
gli orari.
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Pensava, Leonida, che un tempo, per almeno trent’anni, aveva avuto
migliaia di Alunni.
Non faceva praticamente assenze.
Era puntualissimo e passava molte ore in più a scuola, lavorando in
biblioteca, aiutando.
Aveva fatto anche il Preside, raddoppiando l’orario.
Aveva contribuito alla nascita d’un Liceo Scientifico.
Adesso, dopo che i suoi colleghi di liceo avevano eliminato la sua
cattedra di letterature classiche per far posto ad un linguistico, provocando
la conseguente crisi della scuola e la perdita dell’autonomia con i fastidi che
ne conseguono, si era deciso a lavorare in una biblioteca, in un’altra città.
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L’orario era raddoppiato, e forse era un bene che gli avessero imposto,
senza che certo lui fosse convinto d’una simile cosa, di segnare
elettronicamente e registrare al computer dell’ufficio personale il suo
ingresso e l’ora di uscita.
Non usufruiva mai nemmeno dei quindici minuti concessi agli impiegati a
metà mattina.
Era legato alla sua stanza, ma naturalmente, in veste di Pubblico
Funzionario di Stato e Pubblico Ufficiale, in caso di necessità avrebbe fatto a
meno di quell’infantile sopruso.
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Si era accorto, però, che in sei anni di lavoro aveva svolto, visto che
non gli era concesso nemmeno il lavoro straordinario, aveva accumulato più di
mille ore in più.
Praticamente invece di sei ore, ne aveva svolto almeno sei e mezza,
sette.
Questo perché il controllo impostogli, lo spingeva ad essere severo con
se stesso.
E del resto, il lavoro gli piaceva.
Per quanto strano.
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Un giorno, avrebbe chiesto alla scuola non di comprare libri o di
provvedere ad arredare meglio la biblioteca, di controllare e riparare le
finestre sgangherate, di controllare l’impianto di allarme antincendio, simile
ad un alberello di Natale dalle luci impazzite tipo effettto Las Svegas, ma di
riconoscergli le centinaia di ore fatte in più.
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In ogni caso, si sentiva un pilote, o un ciclista, che avesse dato un
distacco notevole al groppone dei corridori con macchine e bici nuove, con le
ammiraglie pronte a rifornire e soccorrere ad ogni guasto.
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Da solo, quasi provvedendo personalmente, comprando libri nella librerie
della città, aveva praticamente staccato
decisamente i docenti e probabilmente anche gli altri.
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Ora, tolte le cose inutili dal computer, aveva raccolto le lettere, le
relazioni, tutti i documenti dei viaggio di istruzione e le ore registrate ai
docenti per le attività estradidattiche su vari CD e CDRW.
Il tuo tavolo, che avrebbe dovuto essere affiancato da uno più ampio,
ovale, secondo i sogni della scuola, come quello della Tavola Rotonda di King
Arthur, aveva lavorato bene.
Era in realtà una cattedra.
Quanta delicatezza, togliergli gli Alunni, dopo trent’anni di lavoro
ineccepibile, interrotto solo dalla furba cospirazione di un gruppo di politici
dilettanti e di inservienti vari, e lasciargli una cattedra e dodici sedie
adatte ad un’aula.
Ma era meglio così.
Era successo anche a un falegname di Nazareth, ad uno studioso sardo, a
tanta altra gente.
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Questo tavolo … pensò …
“Questo tavolo vale …! …”
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rò
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Il miglio perde
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C’è un film singolare e originale.
Il miglio verde.
Un corridoio abitato, in una prigione, da condannati a morte.
Lì si sviluppa una strana vicenda paranormale.
Federico non era abituato al paranorma.
Non lo capiva proprio.
In un mondo in cui tutto è strano, abnorme, che senso ha credere che ci
sia una reltà che faccia concorrenza a questa, stranissima, e ancora più
strana, tanto da sembrare addirittura … normale?
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Era capitato di conoscere anche a Federico un miglio, ma non quello buono
amato dagli uccellini.
Un miglio che non era neppure verde.
Un miglio che ti farebbe dire … il miglio perde …
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In quel corridoio si perdeva la vita stessa, nelle interminabili ore di
chiacchiere praticamente inutili, a volte malevole, nei fumi delle inutili
fotocopie, nella facili scalate delle carriere di arrivati ultimi e premiati
primi.
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In quel corridoio un buon corridore avrebbe facilmente staccato tutti, in
fuga come ai tempi di Binda e Girardengo.
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Eppure, quelle finestre bugiarde che gli si chiudevano di fronte ad orari
impossibili, scombussolandogli i programmi, gli dicevano che il potere abita a
casa di chi sa maneggiare le porte, non per entrare e lavorare, ma per lanciare
messaggi arcani e ingannevoli, come quei carcerati del miglio verde.
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Tratteniamoci poco, in quel bel corridoio, nel miglio.
Il Miglio … perde.
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sìgma
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La fondazione
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Genn entrò nella sala ristorante.
La madre e la sorella erano sedute a tavola.
Si mise a sedere.
Era la prima volta che mangiava con loro in assenza di Antonino.
Assenza che ora si sarebbe protratta per sempre.
C’erano dei canneroni al sugo, come pasta riscaldata.
Non erano niente di eccezionale.
Mangiò con rabbia.
Cosa sarebbe successo, ora?
La sera, quando nella camera della pensione passavano le ore con la
sorella e la Madre, giocava ad un curioso scherzo.
Ai ministri.
Si cercava di fare un Governo e di assegnare l’incarico a chiunque
sembrasse adatto.
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Adesso l’incarico più pesante toccava a lui.
Sarebbe stato quasi sicuramente un naufragio.
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E gli anni, quanti anni, passarono.
La sorella cresceva e la Madre era sempre preoccupata dei bilanci
familiari.
Ma si procedeva.
Fino all’86.
Quindici anni dopo.
Ormai la scuola era avviata e poteva finalmente realizzare il vecchio
sogno di Antonino.
Un sogno irrealizzabile.
Aveva conservato il suo manoscritto.
Il manoscritto predisposto al Policlinico Gemelli.
Ricordava bene.
Ma come fare?
Chi avrebbe potuto prestargli fede?
Avrebbero detto che era pura follia.
Ma doveva procedere.
Doveva realizzare un sogno.
Era come far nascere una nuova epoca, un’epoca che avrebbe completato la
precedente.
Non l’avrebbe sostituita.
Tutto sarebbe restato uguale, ma avrebbe avuto fine un certo modo di
considerare il mondo, il denaro, le forze della Terra e del Cielo.
Un nuovo modo di considerare la vita, gli animali, le piante.
Un modo rinnovato.
Fuori dai veleni e dal disordine metropolitano, verso una vita pulita e
fresca.
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Un proposito difficile, ma non impossibile.
Per prima cosa si fece volontario ospedaliero.
Aiutava semplicemente i malati.
Imboccava col semolino, lavava i piatti, dava qualche consiglio.
Ma il rapporto con i ‘colleghi’ era arduo.
Fece delle fotocopie con il memoriale di Antonino.
In breve, in esso il Padre raccontava la sua malattia, dalla seconda
decade di Marzo alla fase precedente la sua morte, il 9 luglio, al Policlinico
Agostino Gemelli, a Roma.
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Solamente ora, dopo tanti anni, riusciva a trattare quel tema con una
certa padronanza, senza essere sopraffatto da una emozione fortissima.
La … Fondazione Antonino era stata inaugurata.
Una piccola società fra un figlio e un padre, uniti da amicizia forte,
inattaccabile.
Dovette procedere fra difficoltà crescenti, ma almeno ebbe la
comprensione dei suoi Alunni, che ascoltarono il suo racconto e conobbero il
memoriale.
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Dovette fermare la corsa, alla fine di maggio, perché le pressioni del
contesto si fecero forti.
Si recò, quasi dietro ricatto, da un terapeuta in un Centro ufficiale,
proprio nella città dove insegnava.
Per dieci anni non riuscì a fare parola di questi fatti con il terapeuta,
che a dire il vero non aveva affatto voglia di ascoltarlo.
Dopo dieci anni, visto che a scuola avevano soppresso la sua cattedra di
letterature classiche, non gli restò che accondiscendere ad un nuovo forte
richiamo del contesto, che lo spinse a dedicarsi alla cura della biblioteche
scolastiche.
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Per definizione, una tale attività era riservata a chi volesse dannarsi
definitivamente, visto lo stato di abbandono e trascuratezza del settore.
Almeno dalle parti sue.
Infatti gli fu affidato un ufficio obsoleto, privo di servizi^, e la cura
di altre biblioteche, eccetto quella che lui stesso aveva curato e che era in
buono stato, ossia quella del Liceo che lui si apprestava a lasciare, pur di
non essere costretto ad insegnare materie a lui non congeniali, dopo anni di
studio della letteratura classica.
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Del resto, sentiva che doveva dare una svolta alla sua vita.
Eppure, non sapeva assolutamente dove sarebbe andata a finire.
Ma il contesto, con violenza e con forza, evidentemente credendo di poter
disporre del suo destino stesso, come un poderoso clinamen lo spinse ad un
cambiamento per metà imposto come una soluzione umiliante e per metà scelto
come una via di salvezza da una scuola che lui aveva aiutato a far crescere, a
migliorarsi, ma che ora desiderava vivere senza di lui, scegliendo soluzioni
che gli parevano di comodo.
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Così tornò ad occuparsi di libri, cosa che del resto gli era congeniale.
Poi si trasferì nella città vicina.
Qui, in scuole grosse, insegnando per molte ore in giro con la macchina,
si impegnò, ma non poteva ritrovare lo scatto d’un tempo.
Gli mancava un contesto accattivante e pronto.
I suoi lavori, le sue grammatiche, i suoi appunti erano considerati cosa
inutile.
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Così, dopo un ultimo tentativo, si persuase che la Scuola era avviata ad
un destino di decadenza, visto che rinunciava alla sua sincera devozione senza
una sincera reazione.
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Si dedicò ad altre ‘mansioni’.
Era stato in segreteria da militare e tornò a lavorare in segreteria.
In biblioteca curò la catalogazione informatica.
Scrisse, si impadronì delle tecniche per costruire siti xoom e blog.
Diffuse dappertutto le parole di Antonino e le sue.
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Infine, vide i primi risultati.
Era come assistere all’arrivo in una Terra promessa.
Lui non avrebbe mangiato i suoi frutti.
Aveva solo visto tanti anni prima una via d’uscita, aveva formato un
varco, aveva fatto ascoltare una canzone, una musica ad Antonino e ne era
scaturita una nuova visione della vita.
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tàu
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La Legione
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Sapeva che sarebbe successo.
Un giorno, o anche una sera.
Ma non sapeva perché.
Erano quasi sette legioni, chiuse negli armadi di metallo.
Settemila opliti, e quasi dieci volte di più erano quelli degli armadi
delle Leggi.
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Li sentivano a volte muoversi, nelle loro pesanti armature, fitti dentro
le pagine dei libri.
Prima di lui c’era un tizio che sentiva voci, avvertiva messaggi
telepatici.
O forse faceva finta.
Come era possibile credere a simili cose, dopotutto?
Eppure, certi fruscii, certi brusii li aveva avvertiti anche il Capo
dell’Istituto scolastico.
Ma c’era un bagno doppio, accanto, frequentato da tutti, e se ne
sentivano d’ogni genere.
Quindi, non si poteva giurare nulla.
Ma quella gàlea sulla scrivania …
Bella lucida, forte e crinita.
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L’aveva sistemata in un armadio.
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Stava sistemando il computer.
Il mouse funzionava male.
Ad un tratto sentì qualcosa muoversi …
“Salve … ubi mea gàlea …”
“Quis es …”
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Stava davanti a me un guerriero dall’aspetto romano, non greco.
Un legionario.
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“Vobis semper socii erimus, Domi ne …”
Il centurione riebbe il suo elmo.
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Ed io seppi così che non era solo, chi difende i libri.
Per ogni volume, un soldato imbattibile e immortale combatteva, con la
sua spada di fedeltà e di affetto …
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ypsilon
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Il piedicomio
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Nelle aule, negli uffici, in presidenza, dappertutto avevano sistemano le
sedie e le poltrone blu veramente a puntino.
Insellatura ristretta e due bei pedali con una moltiplica collegata ad
una catena che entrava in un foro al muro.
Dall’altra parte, un impianto elettrogeno capace di produrre energia
elettrica e incamerarla nelle capaci batterie centrali.
Così, per rispettare il nuovo piano energetico varato dal movimento pro
ecologia erano stati adeguati uffici d’ogni città.
Niente più sprechi, anzi, l’energia in esubero, illuminate le stanze,
riscaldati o condizionali gli uffici e gli ambienti, veniva venduta
all’esterno.
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Nella grande stanza dei libri, sbuffavano i capi dell’Istituto.
Supplivano quel formidabile ciclista dell’addetto ai libri, impegnato a
smaltire un brutto ma provvidenziale ‘esaurimento tendineo’ provocato da certi
pettegolezzi provvidenziali.
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